Parlare di A Day at the Beach degli Airbag riducendolo alle note che lo vanno a comporre sarebbe estremamente limitativo; si finirebbe per rimanere così tanto sulla superficie da essere quasi altrove. Infatti il quinto lavoro dei norvegesi è in grado di toccare corde emotive talmente profonde da poterlo assimilare maggiormente a un quadro piuttosto che a un disco.

La foto in copertina: spiaggia nordica, tramonto su cielo leggermente annuvolato, in lontananza delle colline, forse un’isola, oppure siamo al lago? Sulla spiaggia una moltitudine di orsacchiotti di peluche, capovolti, tutti con la testa sotto la sabbia.

Gli orsacchiotti siamo noi: alienati, conformisti, spaventati, feriti, in fuga; abbiamo paura di avere, paura di non avere, paura dei sentimenti, ma il terrore di non riuscire a provarli. Siamo sulla spiaggia e aspettiamo qualcosa, qualcuno, ma allo stesso tempo siamo terrorizzati dalla sola possibilità di vederlo in lontananza. Allora infiliamo la testa sotto la sabbia, chiudiamo gli occhi e speriamo che non arrivi mai lasciandoci alla nostra confortante monotonia. Se solo tirassimo fuori la nostra testa noteremmo che non siamo soli, potremmo cercare di creare qualche connessione umana, ma non ce la facciamo, e aspettiamo. Aspettiamo il nostro tramonto, inerti.

Per ora il freddo non sta scaldando molto, ma la musica arriva in soccorso dei testi, almeno in parte. Parlando di Bjorn Riis l’anno scorso ho definito gli Airbag “come i Pink Floyd di Gilmour se si fossero formati nel 2000”, ma a quattro anni dal precedente Disconnected l’uso della chitarra gilmouriana del gigante norvegese è cambiato e non funziona più come una dolcissima stufetta elettrica.

Tantissime nuove influenze hanno fatto capolino nel suono del gruppo contribuendo a scolpire delle canzoni profondamente diverse da quello a cui eravamo abituati. Elettronica minimalista, EBM, future pop e Post Rock si fondono al consueto rock progressivo moderno riuscendo ad abbassare ulteriormente la temperatura. Riis si esprime sempre magistralmente, ma i suoi assoli sono più stridenti, meno puliti, più distorti. Machines and Man è sorretta da un synth ipnotico che mai era comparso nel suono degli Airbag. Into the Unknown sfocia in qualcosa a cavallo tra EBM e future pop riuscendo a ricordarmi il suono dei più morigerati VNV Nation. Per A Day at the Beach (Part 1) i Massive Attack potrebbero quasi querelare, mentre Megalomaniac chiude il disco con una sezione post rock al cardiopalma.

Disconnected è sempre un disco bellissimo, ma mi aveva fatto pensare a una direzione simile a quella dei Pineapple Thief: progressive rock di ottima fattura indirizzato però verso una semplificazione e una ricerca di un impatto più diretto. Invece A Day at the Beach spiazza. È senza dubbio il disco più ermetico del gruppo, di un primo impatto difficile, quasi fastidioso, ma che cresce a ogni ascolto riuscendo a liberare tutto il suo calore.

Superato il ghiaccio dell’elettronica anche Machines and Men ha un ritornello orecchiabile. Quello di Sunsets riesce a rimanermi in testa per delle giornate intere, ma si appoggia su una struttura tutt’altro che accessibile. Le regole sono sovvertite, le aspettative disattese, e non potrei esserne più felice.

Il freddo scalda davvero o è solo più freddo di prima?

Dipende da voi. Le atmosfere sono glaciali, il messaggio è cupo e solo raramente la musica riesce a mostrare quel sole che si stagliava sulla spiaggia della copertina prima del tramonto. Ma io sono più caldo a ogni ascolto. Per quanto mi riguarda si tratta di mettere assieme tutti i pezzi del puzzle, però trattandosi di creazioni emotive il risultato non è la somma dei pezzi, ma qualcosa d’altro. Un quadro non è solo tela, colore e pennello, come un disco non è solo note, parole e copertina. Nel caso di A Day at the Beach le emozioni di chi l’ha composto sono estremamente tangibili e attraverso la loro esorcizzazione riusciamo a fare lo stesso con le nostre tramutando il freddo in calore, la tristezza in gioia e la rassegnazione in speranza.

Luca Di Maio

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