Avete presente quello squallido pop italiano a tema amoroso? Quello le cui cassette hanno riempito le mensole di tutti gli italiani a partire dagli anni ottanta? Quello che ancora oggi, seppur in forma liquida, continua a riprodursi e ricordarci quanto superficiale possa essere gran parte della nostra produzione musicale? Ecco, fino a un paio di anni fa pensavo che Battisti fosse solamente il capostipite di questa sorta di cancro musicale. Il cancro che ha generato quasi tutto da Ramazzotti a Il Volo passando per Nek, Raf e tutti gli altri. È vero? Probabilmente solo parzialmente.
L’accordo raggiunto per l’inserimento del suo catalogo su Spotify è in realtà solo una bieca scusa per parlarvi di un suo disco in particolare. Un disco che ho scoperto un paio di anni fa, per caso, all’interno di un gruppo Facebook sul Rock Progressivo. Qualcuno ebbe l’audacia di postare un link Youtube al pezzo di Battisti Dio mio no; non lo conoscevo, ebbi l’inusuale interesse di salvarlo per futura consultazione, spesso l’anticamera dell’oblio, e invece un giorno feci il tanto insperato click, e… wow.
Se non l’avessi saputo, mai avrei pensato che potesse essere un pezzo di Battisti. Dio mio no si sviluppa tra funky, blues e rock’n’roll con una spruzzata di rock progressivo, sfoggia un arrangiamento di altissimo livello, un mix stereo pauroso (ascoltare in cuffia per credere), un assolo di chitarra piuttosto tecnico e una prestazione vocale del Lucio nazionale che non si era mai sentita prima. È letteralmente indemoniato, arriva a acuti che fatte le debite proporzioni riportano alla mente i grandi del Classic Rock; è un crescendo di emozioni, con la registrazione in presa diretta a mettere in mostra tutta la sua voglia di stupire.
Bene. Poi sono andato a studiare. Dio mio no apre il suo quarto album Amore e non amore, uscito nel 1971, i musicisti non sono altro che I Quelli (giusto l’anno successivo cambieranno nome in Premiata Forneria Marconi) e si tratta di un concept album che tratta l’amore in modo non convenzionale. Ascoltiamo! Il disco alterna pezzi cantati a tema “non amore” ad altri solo strumentali a tema “amore” che sfoggiano titoli lunghissimi in pieno stile Lina Wertmuller (Spotify li tronca inspiegabilmente, tenete presente che l’ultimo s’intitola Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania). Tra quelli cantati Dio mio no è inarrivabile, sembra uscita dal futuro. Il genere degli altri rimane intorno a un rock’n’roll all’italiana, con Una che svetta rispetto ai rimanenti Se la mia pelle vuoi e Supermarket, oggettivamente un po’ banalotti. Quelli strumentali virano invece sul rock progressivo orchestrale e mettono in mostra l’enorme classe di Mussida, Di Cioccio, Piazza e Premoli, oltre a un sorprendente estro creativo per la coppia di autori.
Mai prima e mai dopo questo disco il duo Battisti/Mogol riuscì a regalarci qualcosa di simile (con la sola esclusione di Anima Latina, che è però un discorso diverso). Non a caso nessuno a parte i suoi seguaci più affezionati ricorda le canzoni di questo disco; non c’è nulla di commerciale, è un album sperimentale grazie al quale hanno potuto sfogare una vena creativa troppo spesso tenuta al guinzaglio da logiche commerciali che poco hanno a che fare con l’arte. Ricordo un’intervista a Renzo Arbore durante la quale raccontava di aver sentito Dieci Ragazze in anteprima, criticato a Mogol la qualità del pezzo in quanto troppo commerciale, ma di aver ricevuto come risposta qualcosa del tipo “il ragazzo ha venduto poco con il singolo precedente, volevamo qualcosa di più appetibile”.
Battisti si liberò della schiavitù dalla classifica troppo tardi, senza Mogol, e in un periodo non più adeguato a canalizzare la creatività artistica di un figlio degli anni sessanta. Mi piacerebbe davvero poter fare un giro in quell’universo parallelo in cui la grande accoppiata Battisti/Mogol ha scritto pezzi per il gusto di scriverli senza l’obiettivo di vendere milioni di dischi, probabilmente non ne saremmo degni. E Spotify?
La questione Spotify è spinosa, ho provato a trattarla tangentemente parlando dei classici del 2000, ma richiederebbe un approfondimento maggiore, senza peraltro poter arrivare a una vera soluzione. Partendo dal presupposto che i servizi di streaming esistono e sembra non scompariranno a breve, quello che banalmente mi sento di dire è che per un artista con il suo apice creativo oltre quarant’anni fa, rimanere fuori dallo streaming ha il solo effetto di non permettere ai giovani di ascoltare la sua musica. I “vecchi” se volevano i suoi dischi li hanno già comprati, i giovani semplicemente non li compreranno perché non hanno modo di conoscerli. Invece grazie all’apertura allo streaming ci sarà quantomeno per tutti la possibilità di provare ad ascoltare Amore e non amore, per poi magari andare a comprarsi un vecchio vinile, come dovrei fare io, perché ne vale la pena, sempre.
Luca Di Maio