A quasi 60 anni di età, e 16 dopo l’ultimo capitolo Portishead, Beth Gibbons è tornata con disco di una delicatissima potenza. Ho ascoltato e riascoltato Lives Outgrown appena uscito senza trovare le parole adatte per descriverlo. Non credo di averle nemmeno adesso, ma ci voglio provare.

Si tratta di un lavoro plasmato a colpi di anima da parte della cantante inglese; è qualcosa che difficilmente ci si poteva aspettare, ma che dopo l’ascolto risulta evidente essere l’unico disco che avrebbe potuto regalarci. Il trip hop giustamente non c’è più, anche se le vibrazioni umorali sono abbastanza vicine alle versioni orchestrali dei Portishead (Roseland NYC Live è pur sempre uno dei dischi dal vivo migliori di sempre). Musicalmente siamo su coordinate folk minimalista arricchito da elementi diversi a seconda del pezzo. Talvolta troviamo degli strazianti archi, altre volte dei fiati, dell’elettronica leggera, qualche chitarra evanescente, e sempre le fantastiche percussioni di Lee Harris.

Sì, perché il leggendario batterista dei Talk Talk è l’altro eroe di questo disco. Coautore di 4 pezzi su 9 rappresenta quel filo rosso che collega tutte le composizioni, le quali rimandano quantomeno spiritualmente proprio all’ultimo periodo del suo gruppo di origine, forse più che ai Portishead stessi.

E la voce di Beth Gibbons è una sorta di monumento vivente all’emotività. Meno tagliente rispetto al lontano passato, ma più piena e calda, accompagna in questo viaggio di consapevolezza adulta. Liricamente è infatti impegnata in una presa di coscienza del tempo passato, dei fardelli, dei momenti, delle occasioni svanite, degli amori, e di una perenne ricerca dell’identità che difficilmente potrà mai ritenersi conclusa. Magari ci regalerà qualcos’altro a settant’anni?

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