Devo ammettere che al primo ascolto di A Chaos of Flowers rimasi un po’ deluso. Dov’era tutta quella violenza, quella visceralità, quella rabbia, quella voglia di non mollare mai che avevo trovato in Nature Morte? Non c’era più. Il minimalismo drone distorto e feroce era stato rimpiazzato da un minimalismo folk meditativo. I bordoni facevano capolino solo raramente in mezzo alle distorsioni lente e sparse e alla voce di Robin Wattie; passata da una sorta di Bjork-core a una novella Joni Mitchell. Così lo misi un po’ da parte a decantare.
Ripreso dopo qualche mese lo apprezzo comunque meno del suo predecessore pur trovandolo magnifico, e vedo molto più chiaramente il percorso del terzetto canadese. Stiamo parlando di un gruppo che voleva suonare folk acustico, ma solo perché si sono trovati con delle chitarre elettriche in mano (tutto vero) sono finiti a produrre del drone-post-doom-rock-metal (scegliete voi l’etichetta). Dopo cinque dischi bellissimi passati a giocare con questa formula, hanno casualmente deciso di comporre un album con i The Body e nulla è stato più lo stesso. Da tutti atteso come il disco più pesante della storia, Leaving None But Small Birds è invece un ritorno alle origini con un folk sporco, acido, elettrico ed elettronico. Anche grazie a questo bagaglio è arrivato Nature Morte, con il senno di poi la sublimazione del loro periodo drone, il disco perfetto, ineguagliabile; l’unica cosa che avrebbero potuto fare sarebbe stato ripetere la stessa formula all’infinito, dio sa quanti gruppi non fanno altro. E invece no, A Chaos of Flowers è una sorta di Nature Morte dello specchio; è quello che i Big Brave volevano essere all’origine, ma dopo essere passati da quasi dieci anni di drone-post-doom-rock-metal aggiustato dalla collaborazione con i The Body. È Robin Wattie che esce definitivamente dal suo guscio, e dopo la devastante prestazione dell’anno scorso, ci regala qualcosa di toccante, effimero, delicato, ma incredibilmente vero.
È un disco potenzialmente interessante per una fascia ampissima della popolazione musicofila. L’amante dei cantautori folk potrebbe trovarci tanto di bello, grazie alle poesie scelte da Wattie, oltre che ad alcuni dei suoi migliori testi originali. Il doomster più sofisticato può apprezzare il suo camminare sempre in prossimità dell’abisso senza però mai entrarci. Sarebbe stato facile spaccare un paio di queste canzoni con due martellate di batteria e qualche bordone ultra-distorto, dopotutto lo avevano già fatto meravigliosamente solo un anno fa; molto più difficile mantenere questo controllo estremo oltre ogni aspettativa e ragionevolezza.
È un disco incantevole.