Un gruppo che tiene due delle sue migliori canzoni per il secondo album ha una marcia in più. Quasi tutti i più grandi della storia avevano una montagna di pezzi prima della pubblicazione del primo disco, ma puntualmente e comprensibilmente sparavano tutte le migliori cartucce sul debutto. E spesso seguivano dei secondi dischi leggermente sottotono pieni di seconde scelte. I Black Country, New Road no. Prima della pubblicazione di For The First Time avevano già scritto Snow Globes e Basketball Shoes, ma con quell’arroganza che solo la gioventù non riesce a domare, decidono di tenerli da parte.

E questo è solo uno dei tantissimi livelli di lettura di Ants from Up There. Disco impossibile da non leggere in seguito all’uscita dal gruppo di Isaac Wood. Isaac era la voce, chitarra e autore di tutti i testi; e ha mollato pochi giorni prima dell’uscita dell’album perché la sua salute mentale non gli permetteva di continuare. Depressione forse, difficoltà emotive e relazionali sicuramente. Ma troviamo tutto qui. Ants from Up There e il disco dal vivo che lo accompagna nell’edizione limitata, sono un trattato sulla salute mentale di Isaac Wood. Un trattato che ci riduce il cuore in pezzi.

For The First Time trasuda senso di urgenza e una incredibile voglia di urlare al mondo i tormenti di una generazione intera. Lo fa con una certa dose di angoscia, ma anche con tantissima gioia e con una autoironia in grado di sdrammatizzare i passaggi più liricamente complessi.

Ants from Up There no, e tutto parte da molto più lontano. L’esclusione stessa di Snow Globes e Basketball Shoes dal primo album è una indicazione importante. Non erano ancora pronti per questo mood, ma già a marzo 2021 durante la loro esibizione alla Queen Elizabeth Hall si poteva iniziare a capire. Esemplificato dalla versione di Sunglasses proposta in quell’occasione, e che troviamo con tutto il concerto nell’edizione limitata dell’ultimo album.

Isaac non era già più invincibile con i suoi occhiali da sole, non era più un moderno Scott Walker, non era più Fonzie; la maschera era caduta, la paura di essere molto meno della somma delle sue parti stava già arrivando. La totale rimozione dei passaggi autoironici, la chiusura downbeat, la voce strozzata, erano già la strada. Il tutto reso ancora più evidente da quello che all’epoca era un inedito, Bread Song, e dalla chiusura straziante di Basketball Shoes.

For the First Time era uscito da solo un mese, il COVID permetteva tour a singhiozzo con tante date cancellate la scorsa estate. Con il senno di poi erano state veramente cancellate per il COVID? Quelle tra novembre e dicembre lo sono state per “motivi di salute”, poi evidentemente esplicitati dalla dipartita di Isaac. Nel frattempo, Ants from Up There era stato tutto scritto e registrato con il suo contenuto a riflettere in pieno la sua condizione.

Quello che colpisce è che evidentemente anche gli altri membri del collettivo stavano assorbendo un mood in linea con quello del loro paroliere. I territori si fanno decisamente più emotivamente pesanti con la rimozione di tutta quella gioia che tantissimi passaggi di For the First Time dimostravano. Tornando al paragone che più gli ha portato fortuna, Ants from Up There è decisamente più Spiderland del precedente. Se su For the First Time si sentivano spesso degli incantevoli omaggi agli Slint, sul nuovo lavoro ci sono meno omaggi, ma una maggiore affinità spirituale con quell’immenso capolavoro.

Chaos Space Marine è forse l’unico pezzo upbeat del disco; un primo singolo piuttosto spiazzante che mi fece pensare a una deriva Arcade Fire abbastanza fuori luogo. Invece a partire da Concorde abbiamo un crescendo di ansie e angosce squisitamente Post-Rock figlio di Louisville, ma con una sensibilità inglese del ventunesimo secolo, il tutto condito da un approccio spesso cantautorale d’autore. Il sassofono non è più l’intermezzo leggero, ma un rafforzamento di un violino già di per sé struggente. La batteria spesso si estranea da tutto andando a martellare sofferenza in posti in cui non eravamo nemmeno consapevoli di stare male.

Snow Globes sarà il mio pezzo dell’anno. Lo dico a metà febbraio. Lenti arpeggi ripetuti si fanno raggiungere da violino e sassofono in un immobile crescendo; piano piano una ovattata batteria inizia a fare capolino, passano i minuti e arriva la voce di Isaac a recitare l’ennesima poesia ermetica. Lentamente e improvvisamente ci rendiamo conto che una batteria martellante e dissonante inizia a catturare la nostra attenzione per poi rapirci completamente. È quasi difficile scorgere la voce straziata di Isaac in mezzo a quel delirio batteristico e a quell’incessante crescendo di violino, presto anch’esso soffocato da tom e rullante. “Oh God of weather Henry knows, Snow Globes don’t shake on their own”. La batteria si placa, il violino prende il sopravvento, ma noi siamo già stremati, la conclusione quasi non la registriamo, le rullate continuano a rimbombarci nel cranio.

Basketball Shoes, posta in chiusura, è in realtà il pezzo che ha generato tutte le altre canzoni, riassumendole a sua volta. È un compendio dei Black Country, New Road di Isaac Wood; non sarebbe sufficiente perché non avrebbe senso privarsi degli altri capolavori, ma allo stesso tempo riesce a dire tutto quello che bisogna sapere. Liricamente ermetica, straziante e sognante; musicalmente suadente e angosciante, ma venata di passaggi aggressivi e rabbiosi. Parlare di genere musicale trovo sia riduttivo e quasi offensivo; siamo nell’universo rock, ma oltre ogni altro ipotetico confine. Se nel 2022 potessero ancora esistere dei classici della musica, i loro primi due dischi lo potrebbero tranquillamente diventare; purtroppo le grandi inondazioni di musica liquida ne penalizzeranno una ipotetica cristallizzazione.

Il collettivo in questo momento si sta preparando ad andare in tour in sei, con le parti vocali divise tra i vari membri, dicendo che potrebbero non suonare nessun pezzo dei primi due album. Si tratterà sostanzialmente di un nuovo gruppo, sempre disponibile ad accogliere il ritorno del figliol prodigo quando e se dovesse sentirsela. Noi rimaniamo alla finestra riguardo il futuro, ci siamo ormai abituati, ma almeno abbiamo una ragione in più per goderci il presente; e il presente di chiama Ants from Up There. Infatti sembriamo proprio formiche da lassù.

Luca Di Maio

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