“Jazz” è una parola complicata, tra le più indefinibili. Una parola che però, nonostante questo, rimanda (tra le altre) a immagini precise di trombe, sassofoni, contrabbassi, pianoforti, luci soffuse, fumo e rumore di bicchieri;
è New Orleans, è Chicago, è New York;
ma è anche una piccola città in mezzo al Belgio e si declina in mille forme, dallo swing, al nu jazz passando per il bebop, il cool jazz, l’hard bop, il jazz modale, la fusion e il free jazz.
Il jazz è anche la musica della rabbia, della dignità, del riscatto e della rinascita;
il jazz è fervore e lotta;
il jazz ribolle e invoca;
il jazz è urgenza e militanza.
A incarnare magistralmente queste istanze, persino allargandole di spiritualità, sperimentazione e tribalità, è Shabaka Hutchings, trentaseienne clarinettista e sassofonista tenore britannico di origini barbadiane, che attraverso i suoi progetti – Sons of Kemet, The Comet is Coming, Shabaka and The Ancestors – ha riportato Londra al centro della scena jazz internazionale.
Lo scorso 14 maggio è uscito Black to the Future, il quarto album dei suoi Sons of Kemet, “kemet” che significa “terra nera” in lingua egizia. I figli del limo ce lo ribadiscono a chiare lettere il perché di questo nome, nel primo pezzo estratto da questo nuovo lavoro, Hustle: “I was born from the mud with the hustle inside me”.
Ma andiamo con ordine.
Shabaka Hutchings ci presenta Black to the Future spiegando che si tratta di un “poema sonoro” volto a ridefinire e riaffermare il senso e i contorni della lotta per la sopravvivenza dei neri, e indica nell’omicidio di George Floyd avvenuto il 25 maggio del 2020 l’evento-chiave che lo ha portato alla composizione e stesura di questo album. Album che ci appare con una copertina a sfondo rosso e silhouettes di sculture del continente africano sovraimpresse, che parlano immediatamente di radici e di storia. Ma c’è di più: la frase che scaturisce dall’unione dei titoli dei brani vergati sul retro è già più che una dichiarazione di intenti:
Field negus, Pick up your burning cross, Think of home, Hustle, For the culture, To never forget the source, In remembrance of those fallen, Let the circle be unbroken, Envision yourself levitating, Throughout the madness, Stay strong, Black.
A delineare ulteriormente questo quadro generale, e per mettere a fuoco ancora meglio di cosa si tratta, ricordo che nella formazione dei Sons of Kemet ci sono due batterie, in questo disco quelle di Tom Skinner e di Eddie Wakili-Hick, e che grazie a questa ennesima idea brillante di Shabaka Hutchings le sonorità assumono quel sapore tipico del drumming dell’Africa occidentale, ovvero un linguaggio ben preciso che però viene da loro rielaborato in chiave moderna e militante.
E finalmente è il momento di mettere il vinile sul piatto.
Non so se di un suono si possa dire che abbia fisicità, ma questo album esce dalle casse e prende corpo in salotto.
I brani sono i danzatori arancioni di Henri Matisse che via via, uno ad uno, ti afferrano la mano.
“I do not want your equality /
It was never yours to give me”
“Let me show you what you’ve taught me about crime /
Forget a piece, we want the whole pie”.
Con incisi come questi di Field Negus con cui si apre l’album, scanditi dallo spoken emozionato e emozionante di Joshua Idehen (musicista, poeta e attivista), inizia a formarsi questo monolite in salotto, infiltrandosi probabilmente dai muri.
Arricchito e attraversato dalla voce di Moor Mother, musicista, poetessa, e attivista di Philadelphia, e con la clarinettista Angel Bat Dawid special guest, il secondo brano Pick up your burning cross è cadenzato dai fiati, soprattutto quello di Hutchings, che spinge e sorregge la ragazza che, nel video ufficiale, tenta infinite volte e poi riesce nella sua pole dance, ergendosi, sulle ultime note, al di sopra di tutti. E mentre lei vola, vola anche la tuba di Theon Cross, secondo fiato di questo incredibile quartetto.
Siamo al terzo pezzo, Think of Home: sonorità calypso che non solo non stonano ma neppure sorprendono viste le origini caraibiche di Shabaka Hutchings. Seppur nato a Londra, quando pensa a casa pensa alle Barbados, dove ha vissuto da ragazzino e fino all’adolescenza insieme alla sua famiglia.
Il quarto pezzo è il già citato lead single Hustle, rappato dall’inglese Kojey Radical che ripete ossessivamente il manifesto anch’esso già menzionato “born from the mud with the hustlе inside me”, e impreziosito, soprattutto in questo inciso, dal feat. di Lianne La Havas e dal suo straordinario timbro soul. Se le parole bruciano, incendiario è l’impianto musicale, che cadenza questo hustle sempre sul punto di esplodere.
Il quinto brano, For the Culture, è il racconto di una serata in un locale. A srotolarne la trama è D Double E, grime rapper inglese, che si muove lungo il groove nervoso di Theon Cross. Al minuto 3:46 uno sperone di pietra viva in pieno petto.
Sesto pezzo: To Never Forget the Source. Più che mai in risalto il clarinetto di Hutchings, in un mood apparentemente più pacato, ma in cui la sezione ritmica ribolle sotto traccia con un’intensità viscerale. Hutchings, in una conferenza stampa, ha detto di identificare questo brano col punto focale e idelogico dell’album, e la sorgente da non dimenticare è il mondo interiore, il fattore unificante che permette di guardare oltre ma anche indietro.
Siamo al settimo pezzo che gira sul piatto, In Remembrance of Those Fallen, un dialogo tra i fiati, agitato e irrequieto, a scandire ogni nota come fosse un nome, un elenco, una lunga lista di caduti. Perché se l’uccisione di George Floyd è stata la scintilla che ha dato vita all’album, è vero che non si è trattato di un evento isolato, e il rivolo di sangue dei neri uccisi è un fiume che si ingrossa ogni giorno da secoli.
L’ottavo pezzo, Let the Circle be Unbroken, ha una trama avvolgente ed espansiva che non è meno narrativa o destabilizzante dei brani non strumentali. I fiati sono setosi ma arrabbiati, e la continuità con il resto dell’album risulta perciò anch’essa ininterrotta, come perfettamente continuativi sono i passaggi dal groove classico alla convulsa  esplosione nel free jazz.
Siamo alla traccia nove, Envision Yourself Levitating. Un respiro tantrico che via via si spezza e si inquieta, e ci restituisce un senso di smarrimento quasi astrale, concettuale, superiore e inconsolabile con retrogusto nyabinghi giamaicano. Devozione e occhi chiusi.
Pezzo numero dieci, Throughout the Madness, Stay Strong (aka prossimo tatuaggio): evocativo esattamente come il titolo, un unico suono amalgamato in cui è chiaro che la chimica che scorre tra questi quattro straordinari musicisti ne è il quinto elemento, la quintessenza, la pietra filosofale.
L’ultimo pezzo, Black, chiude l’album esattamente come si apre, con lo spoken rabbioso e toccante di Joshua Idehen:
This Black sorrow is dance /
This Black praise is dance /
This Black struggle is dance.
Un disco clamoroso, con una fortissima connotazione politica; un disco in cui il jazz, di cui ho tentato di delineare almeno i contorni nell’incipit, è il substrato e il fondamento di tutta l’opera. Questa ossatura si fa carne e sangue a tinte funk, con innervature caraibiche, e grime e dub e hip hop e rap a significare che “jazz” è tutto quello che urge perché ci urla dentro e ci mangia vivə.
Attendevo questo album con impazienza e enormi aspettative, dovute soprattutto al precedente lavoro di questa incredibile formazione, Your Queen is a Reptile, a cui Shabaka Hutchings e gli altri contrappongono delle magnifiche donne nere, autentiche – loro sì! –  regine a sangue caldo, caldissimo, che hanno lottato contro oppressione, razzismo e violenza.
Quello che fanno i Sons of Kemet va oltre, è un nuovo canone del jazz, un jazz rivoluzionario, punk nell’urgenza e intellettuale nella forma. È viscerale ma allo stesso tempo ragionato, può esprimersi con una serie infinita di note nello spazio minuscolo di un soffio ma anche con una sola lunghissima nota insufflata a disegnare un percorso, un sentiero, un intero paesaggio. Il loro suono è talmente contaminato che annaspando per connotarli si cerca di uscirne definendo il loro stile “world music”, ma questa locuzione ha un retrogusto colonialista che respingo e rispedisco con forza al mittente. Siamo di fronte a qualcosa di più grande del mondo, almeno relativamente al coefficiente di rabbia che si porta dentro, e l’impianto sonoro e musicale con cui questa rabbia prende voce, suono e forma costringe a muovere tutto il corpo ma scuote anche profondamente la coscienza, e questo persino nei momenti più morbidi: un catartico dissenso, una nuova più profonda consapevolezza.
Disco impressionante, ensemble straordinario, e Shabaka Hutchings figura titanica e sovrumana: Dio.

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