Bruce Dickinson non deve niente a nessuno. Dopo aver contribuito in maniera significativa alla nascita dell’heavy metal così come lo conosciamo, dopo aver dominato in tutto il mondo con il gruppo metal più importante della storia, dopo essere stato un pilota di aerei di linea, un campione di scherma, un imprenditore, un coach motivazionale, dopo aver sconfitto un cancro alla gola ed essere tornato più in forma di prima. Dopo tutto questo lui non deve niente a nessuno. E invece decide di fare il suo primo disco solista in quasi vent’anni e portarlo in giro in tutto il mondo con un gruppo di semi-sconosciuti suonando di fronte a platee anche di un ordine di grandezza meno folte di quelle a cui è abituato con i Maiden. E lo fa sempre non dovendo niente a nessuno. Per me tutto quello che crea è un regalo, anzi è qualcosa di meraviglioso in cui mi è casualmente capitato di imbattermi. Non è un regalo perché so che Bruce non lo sta facendo per me, non lo sta facendo per noi, ma solo per sé stesso. Ed è per questo che funziona.
The Mandrake Project non è un capolavoro, ma un disco di solidissimo heavy metal moderno che si concede a contaminazioni interessanti e inusuali seppur rimanendo entro i canoni post-Skunkworks. In primis c’è della gioia. Non che non trasmetta gioia con i Maiden, ma su questi lavori c’è un mood completamente diverso; i ritornelli si aprono sempre in qualcosa di più orecchiabile e, ancora una volta, gioioso. Non so come spiegarlo meglio. Non che tutti i pezzi siano una festa selvaggia; quel capolavoro (e qui lo dico) di Sonata (Immortal Beloved), è straziante nel suo incedere psichedelico, quasi PinkFloydiano, e quel “Save me now, save me now” cazzo mi dà la pelle d’oca anche adesso mentre sto scrivendo e lo ripenso solo nella mia testa. L’altra chicca è Resurrection Men, con Bruce al bongo e il mitico Roy Z che assieme a quel mostro di Dave Moreno alla batteria torna ai fasti latino-metal degli strepitosi Tribe of Gypsies (fatevi un favore e recuperate i loro dischi). Il resto del disco si muove si coordinate più canoniche, ma con picchi altissimi come Shadow of the Gods.
E poi niente, dal vivo. Abbandonato dagli amici fedeli nei secoli per i circa venti concerti dei Maiden visti dal ’98 a oggi, ho detto sticazzi vado al Metal Park da solo. Una delle decisioni migliori della mia vita. Ho assistito a quello che è stato uno dei concerti più belli degli ultimi, boh, dieci anni? Di sempre forse?
Nessun pezzo dei Maiden, tantissimo The Chemical Wedding, un po’ di Accident of Birth, Tyranny of Souls, The Mandrake Project e Balls to Picasso. Altrove hanno suonato anche Faith da Skunkworks, ma per me sarebbe stato davvero troppo. Una lineup devastante orfana di Roy Z per motivazioni non chiare, ma carica di mostri a me sconosciuti; tecnicamente ineccepibili e pazzeschi sul palco. Tutti che si divertivano, e su questo i Maiden non hanno nulla da invidiare, ma il fatto che avessero suonato assieme solo una manciata di concerti rende il tutto quasi assurdo.
Attendevo Tears of The Dragon e speravo con tutto il cuore in Navigate the Seas of The Sun. Sono stato accontentato e mi sono emozionato, ma i momenti topici del concerto si sono rivelati essere Chemical Wedding e The Alchemist. Non sono in grado di descrivere la magnificenza di queste composizioni, la seconda delle quali mai suonata dal vivo prima di questo tour, 26 anni dopo la sua incisione. Sì, perché la cosa stupefacente è che stiamo parlando di canzoni mai proposte in Italia o suonate solo una volta nel lontano 1998 o nei pochi tour precedenti. E il pubblico le sapeva TUTTE. Le sapevamo tutte. Senza averle mai sentite a un concerto, a oltre 25 anni dalla loro uscita, le abbiamo cantate tutte. Nemmeno a un concerto dei Maiden sento cantare così tanto tutto il tempo. È evidente che per Bruce solista gli occasionali se ne sono stati a casa. Peggio per loro.