Dopo aver provato a identificare i semi che hanno generato il Post-Rock, dopo aver ammirato la sua esplosione implosiva, ora l’obiettivo è capire cosa è diventato. E in un certo senso è diventato proprio quello che non voleva essere: un genere codificato.

Gruppi come Mogwai e Godspeed You! Black Emperor potevano tranquillamente essere inclusi nella prima ondata in quanto stavano facendo cose filosoficamente molto simili a quanto visto negli anni precedenti. Era però già evidente come buona parte delle loro influenze fossero da andare a ricercare più vicine nel tempo, rispetto a quanto erano andati indietro i loro più recenti predecessori. Inoltre, si sono rivelati essere una sorta di archetipo per tutto quello che verrà etichettato come Post-Rock negli anni a venire. Aggiungendo infatti gli Explosions in The Sky e i Sigur Rós abbiamo già identificato quasi tutti gli elementi che contraddistinguono questo nuovo Post-Rock che stava andando codificandosi.

E così torniamo all’incipit della prima parte: il Post-Rock è “un genere derivante dalla scena alternativa, normalmente contraddistinto da pezzi strumentali, chitarre oltremodo distorte e tanta atmosfera. Mogwai, Explosions in the Sky, Godspeed You! Black Emperor e God is an Astronaut ne sono alcuni validissimi esempi.” Adesso è corretto, ma comunque incompleto. Moltissimi gruppi Post-Rock interiorizzano il minimalismo post-classico così tanto da averlo influenzato a loro volta (MONO). L’utilizzo dell’elettronica è spesso dominante, ma talvolta parte dalla scena dance anni Novanta, piuttosto che dalle sperimentazioni delle decadi precedenti (God is an Astronaut, 65daysofstatic, Maybeshewill). L’utilizzo degli archi sulla scia di quanto fatto dai Rachel’s ed estremizzato dai Godspeed You! Black Emperor è diventato un marchio di fabbrica del Post-Rock più emotivamente devastante (ancora MONO, The Ascent of Everest, The Evpatoria Report). E tanto altro ancora.

Come tutti gli altri generi codificati, ha ora delle regole ben chiare che lo differenziano al volo dallo Shoegaze, dal Progressive, dai vari sottogeneri Metal, dal Post-Hardcore e via dicendo. Non si identifica più per quello che non è, ma per delle coordinate ben precise. Coordinate chiaramente non immuni da variazioni, talvolta anche particolarmente innovative, ma che non diventano altro, non trascendono la natura stessa del rock, come invece succedeva nei primi anni Novanta.

Questo non vuole andare a sminuire ciò che il Post-Rock è diventato, anzi, a parte qualche caso isolato preferisco ascoltare questa ondata rispetto alla precedente. Ma non posso esimermi dal riconoscere quanto siano così filosoficamente diversi da avere in comune solamente il nome, oltre a essere uno parzialmente la conseguenza dell’altro; ma in modo non dissimile da quanto il Post-Rock prima ondata sia parzialmente la conseguenza del Post-Punk o del Krautrock.

Un’altra caratteristica importante di questa seconda ondata è l’universalità. Se nei primi anni Novanta ci si muoveva strettamente tra UK e US, ora il Post-Rock è un fenomeno globale che non subisce sostanziali distinzioni geografiche. Tanto che i già citati progenitori sono rispettivamente Scozzesi, Canadesi, Americani e Islandesi, seguiti a ruota da Giapponesi, Cinesi e Irlandesi. Il viaggio seguirà quindi una traiettoria cronologica e per concordanza stilistica; i gruppi sono tantissimi e in continua evoluzione, nella playlist in calce ne troverete almeno il doppio di quelli che riuscirò a menzionare.

Considerando che la maggior parte dei gruppi di cui parlerò sono attivi ancora oggi, ci troviamo di fronte a discografie che spaziano su 25, 20 o almeno 10 anni. Una mole di lavori impressionante e spesso di qualità comprensibilmente altalenante, o comunque di valenza storica limitata nel suo complesso. Questo in contrapposizione a molti dei gruppi della prima ondata che sono letteralmente bruciati nel loro fuoco in pochissimi anni. Quindi quelli che leggerete saranno degli stralci della storia di questi artisti atti a contestualizzare il loro suono ed evidenziarne il colore emotivo.

Mogwai

“Penso che la maggior parte della gente non sia abituata a non potersi focalizzare sui testi. I testi sono un grande conforto per le persone. Immagino che gli piaccia canticchiare le canzoni e quando non possono farlo tendono ad arrabbiarsi” / “Parliamo con i nostri pedali e i nostri effetti. Trasmettiamo i nostri pensieri interiori attraverso vari toni di distorsione.” – Stuart Braithwaite – Mogwai

Il gruppo di Stuart Braithwaite ha l’enorme pregio di essere riuscito a fondere il Post-Rock chitarristico americano degli Slint figlio del Post-Hardcore con il muro di suono tipico dello Shoegaze, e in particolar modo dei My Bloody Valentine. Il risultato è un album di debutto, Mogwai Young Team, ricco di lunghi crescendo estremamente controllati che regolarmente esplodono in climax di distorsioni e riverbero. Mogwai Fear Satan potrebbe essere il loro manifesto, oltre a quello di buona parte del Post-Rock che verrà; 16 minuti completamente strumentali da assaporare a volumi inauditi liberando tutte le emozioni che si hanno in corpo. Ed è solo il primo album.

I Mogwai riescono anche a riportare il rock nel Post-Rock, quantomeno oltremanica. E lo fanno appunto attingendo oltreoceano e tornando indietro rispetto a quanto successo nel Regno Unito pochi anni prima. Il rock ritorna grazie al timbro e grazie a un’attitudine punk aggiornata agli anni Novanta, ma con la novità dell’essere un gruppo principalmente strumentale. E la chiave del loro essere strumentale è totalmente emotiva piuttosto che tecnica, come invece si ritrova solitamente a esser per la maggior parte della musica senza voce. La voce in questo caso è una commistione del nostro sentire e di quello del gruppo che va a creare un’esperienza squisitamente individuale.

Godspeed You! Black Emperor

“Provavamo a fare musica pesante con gioia. C’erano un sacco di gruppi che reagivano alle difficoltà del periodo facendo musica pesante lamentosa che suonava falsa. Noi odiavamo quella musica, odiavamo il fatto che privilegiasse i tormenti individuali, volevamo fare musica come quella di “Friends and Neighbours” di Ornette Coleman; un gioioso, difficile rumore che riconosceva le condizioni attuali, ma passava anche oltre allo stesso tempo. Una musica per tutti noi assieme. Odiavamo l’essere riconosciuti come una roba per depressi, ma sapevamo che la causa era il bagaglio degli altri, non il nostro. Per noi ogni canzone cominciava con il blues, ma puntava al paradiso verso la fine; perché come potevi trovare il paradiso senza prendere atto del blues attuale?” Godspeed You! Black Emperor

Ancora una volta si parla di emozioni, e il collettivo di Montreal fa un lavoro enorme per bilanciarle con l’impegno politico e le tantissime voci coinvolte nel progetto. Per quanto musicalmente possano spesso sfociare quasi nel metal, filosoficamente sono Post-Rock esattamente come teorizzato da Reynolds. Siamo di fronte a un vero collettivo che mette da parte ogni individualità, lo fa così tanto da aver deciso di non rilasciare interviste da un paio di decadi e non aver mai posato per delle classiche foto di gruppo. E musicalmente sono realmente un laboratorio aperto che trascende la filosofia rock, ma che allo stesso tempo non riesce davvero a tenerlo fuori dalla porta.

Il loro primo album F♯ A è una sorta di racconto post-apocalittico privo di un inizio e con un finale emotivamente insopportabile. L’utilizzo degli archi estremizza quanto visto nei Rachel’s; partono pianissimo, poi crescono, crescono, crescono, arrivano le chitarre e il climax è impossibile da sostenere. Questa è una descrizione che leggerete spesso, ma per quanto il format dei lunghi crescendo sia molto comune in questo Post-Rock, le declinazioni sono molteplici e tra i grandi nomi non esiste la sensazione di già sentito.

L’EP Slow Riot for New Zero Kanada, e in particolare Blaise Bailey Finnegan III, è forse il loro zenit politico del primo periodo, con tanto di citazione dal testo di Virus degli Iron Maiden. È seguito da Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, il Tales from Topographic Oceans del Post-Rock; quattro movimenti da 20 minuti ciascuno in un delirio di silenzio, rumori, riff pesantissimi, archi suadenti, claustrofobia e catarsi. Poi uscirà l’ottimo e più ruvido Yanqui U.X.O., seguito da dieci anni di silenzio e un ritorno sempre con ottimi dischi sfornati a cadenze abbastanza regolari. Nell’ultima decade il collettivo ha di fatto stabilizzato un proprio sound seguendo la tendenza del genere che ha contribuito a creare. È quindi possibile produrre qualità senza per forza fare la rivoluzione?

Sigur Rós

“Non vogliamo diventare delle superstar milionarie, semplicemente cambieremo la musica per sempre, e il modo in cui la gente pensa alla musica. Non credete che non siamo in grado di farlo, lo faremo.” – Sigur Rós

Questo proclamò il gruppo islandese nel 1999, durante il lancio del secondo album Ágætis Byrjun. Una discreta dichiarazione d’intenti. Purtroppo difficile dire che su larga scala abbiano ottenuto il risultato desiderato, ma allo stesso tempo sono il gruppo Post-Rock che più è riuscito a trascendere le barriere di genere assieme ai Mogwai.

E lo hanno fatto senza compromessi, senza cedere alle tante richieste di utilizzo della loro musica nella pubblicità mantenendosi fermi sulla volontà che la loro musica non venga mai utilizzare per vendere niente. E soprattutto producendo canzoni che non sono vere canzoni, che si preoccupano più di creare una atmosfera, quasi tattile, piuttosto che di avere una struttura.

Esce proprio l’Islanda dalle loro composizioni, ma un’Islanda mitica, magica, eterea. Il falsetto di Jónsi, unito al suono della sua chitarra con l’archetto, va a creare infiniti livelli emotivi intrecciandosi con preziose orchestrazioni. Spesso considerati alla periferia dal Post-Rock, sono anche loro dei veri pionieri, soprattutto della componente più minimalista e classica.

Explosions in the Sky

“Abbiamo sempre adorato come la nostra musica sia una sorta di test di Rorschach per le emozioni umane. Quello che l’ascoltatore porta alle melodie e alle dinamiche è importante tanto quanto quello che portiamo noi per la loro creazione.” Mark Smith – Explosions in the Sky

Per quanto il gruppo Texano sia sorprendentemente noto per affrontare il tema della guerra attraverso le sue composizioni strumentali, io non riesco proprio a scorgervi alcun riferimento ai conflitti armati. Per quanto mi riguarda il loro è il suono della natura, è l’umanità che piano piano prende consapevolezza di tutto il creato; è il mondo stesso che ritorna in contatto con le proprie radici, è il risveglio di una coscienza superiore. La loro musica è un big bang silenzioso e assordante.

Piuttosto lontani dai Godspeed You! Black Emperor sia musicalmente che filosoficamente, sono forse più vicini ai Mogwai, ma rappresentano il primo esempio di questo Post-Rock chitarristico emotivo fatto di suoni puliti, lucidi, scintillanti, e allo stesso tempo anche spaventosi e opprimenti, proprio come la natura stessa. Non è un caso che siano presto sfociati nel mondo delle colonne sonore, come i Mogwai e tanti altri, ma abbinati a composizioni più squisitamente neoclassiche in quanto ne condividono pulizia ed eleganza.

È difficile parlare singolarmente dei loro dischi in quanto rappresentano degli affreschi naturali unici che, come di consueto, vivono di lenti crescendo, spesso interrotti, ma talvolta culminano in climax di gioia e terrore. Ancora più di altri sono responsabili di quello che è diventato il Post-Rock nel ventunesimo secolo.

MONO

“Può suonare arrogante, ma come compositore scrivo musica che possa salvarmi e che mi possa permettere di pensare e cercare il significato della vita. E da questo spero di poter dare la forza di continuare a vivere ad altre persone nel mondo. Prendendo in prestito le parole di Beethoven, penso che la musica debba incendiare il fuoco nel cuore degli uomini e portare le lacrime negli occhi delle donne (e viceversa, ovviamente).” – Takaakira “Taka” Goto – MONO

Taka, anzi, Beethoven, descrive la musica dei Giapponesi alla perfezione: incendiare il fuoco nel cuore e portare le lacrime negli occhi. Sin dai primi due album hanno alternati riff violenti a metà tra il metal e la noise, a momenti strazianti. Con il tempo hanno introdotto sempre più archi e sempre più movimenti orchestrali, ma l’impronta di questa dicotomia rimane determinante fino a oggi.

I loro album sono delle colonne sonore immaginarie che possono spaziare da danze sinuose fino a violenti terremoti. I lunghi crescendo sono determinanti per poter costruire l’enorme carica emotiva, ma ancora una volta non mi sento di considerarli particolarmente affini a quelli degli altri gruppi menzionati. Sicuramente hanno avuto modo di imparare la lezione dei Godspeed You! Black Emperor, ma l’hanno coniugata con il minimalismo, andando a loro volta a influenzare lo sviluppo della nuova classica. Sarei estremamente sorpreso se Olafur Arnalds o Ludovico Einaudi non li avessero mai sentiti.

God is An Astronaut

“Per me la musica è già stata scritta, devo solo ritrovarla nel buio. È così che la sento, mi sembra di tirare fuori da qualche parte qualcosa che già esiste. Quando scrivo i primi accordi, so che esiste già la canzone finita, devo solo rimetterla insieme.” – Torsten Kinsella – God is An Astronaut

L’immagine evocata da Torsten Kinsella è spettacolare. Lo vedo, testa bassa, rivolto alla sua chitarra, intento a estrarre la musica da una spaccatura dimensionale.

Il gruppo irlandese comincia con una sorta di Post-Trip Hop estremamente avaro di chitarre, ma già dal secondo album All is Violent, All is Bright, trova la propria identità. Le atmosfere sono più positive rispetto alla maggior parte degli altri gruppi, i dischi risultano meno degli affreschi e più delle narrative sommesse, ma estremamente catartiche. L’elettronica e la manipolazione in studio sono molto importanti, e le chitarre solo raramente si lasciano andare a quelle esplosioni di violenza emotiva tanto comuni al genere, ma quando succede!

Dal vivo invece si rivelano per essere una bestia completamente diversa e la catarsi non si raggiunge più grazie a una pacifica meditazione, ma attraverso un viaggio dall’esito molto più incerto. Tuttavia, si chiude sempre con un sorriso, anche se spesso un po’ amaro.

Wang Wen e Summer Fades Away

Il motivo per cui vi parlo di questi due gruppi cinesi, oltre a volerne evidenziare l’indubbio valore, è quello di sottolineare un aspetto estremamente importante di questo Post-Rock: la sua universalità. L’essere un genere principalmente strumentale abbatte le barriere linguistiche e si focalizza sulle uniche cose che noi esseri umani abbiamo davvero in comune: le emozioni.

I Wang Wen sono stati fondati nel 1999 è già dal loro primo album iniziavano a mostrare tutte le caratteristiche del genere che si è poi andato a codificare. Sono di fatto antecedenti ai MONO e ai God is An Astronaut, e per molti anni sono rimasti chiusi all’interno nel loro enorme paese. Per queste ragioni le loro soluzioni suonano ancora abbastanza fresche a noi occidentali perché sono andate a scavare più indietro; agli Slint, al krautrock, al minimalismo e anche al jazz. Grazie a questa iniziale chiusura hanno però potuto creare una vera e propria scena cinese in grado di produrre gruppi che non hanno nulla da invidiare a quelli che meglio conosciamo.

I Summer Fades Away sono l’esempio migliore di questa scuola. A oggi hanno prodotto solamente due album nel 2011 e 2012, ma stanno facendo capire di voler tornare sulle scene tra poco. Il loro è un esercizio atmosferico che tanto deve al mondo Post-Classico, con svariate composizioni che si limitano a un dialogo tra piano e archi; ma altre che esplodono in climax chitarristici che trascinano l’ascoltatore in una sorta di oscuro nirvana.

Altri

Mi perdonino tutti gli altri gruppi e i loro fan, ma sono veramente tanti. Ho scelto quelli che trovo più importanti storicamente, e che si sono rivelati essere la base per lo sviluppo di questo movimento. Tuttavia, proviamo con una carrellata.

I 65daysofstatic dei primi due album sono quanto di meglio si possa trovare nel Post-Rock elettronico-pianistico, i Maybeshewill simili ma più violenti. I Caspian e i Tides from Nebula si concentrano di più sulle chitarre, e lo fanno sempre con tanta emozione. I This Will Destroy You seguono le orme degli Explosions in the Sky, ma sono il loro yin. I Blueneck rappresentano uno dei pochi esempi di Post-Rock cantato di altissima qualità, che può avvicinarsi al Prog più moderno, ma senza farlo del tutto. Gli Arab Strap e i Do Make Say Think sembrano qui quasi per caso, ma sono la progenie della prima ondata. Poi ci sono gli ef, gli Sleepmakeswave, i Powder! Go Away e tantissimi altri che trovate nella playlist. È un mondo ancora pieno di vita e che riserva continue sorprese.

Post-Rock 2021

Il Post-Rock nel 2021 si ritrova pochissime cose in comune con quello che aveva definito Simon Reynolds, ma allo stesso tempo porta i segni di tanti degli artisti dei primi anni Novanta che erano stati inseriti nella definizione a posteriori. La grossa differenza è appunto filosofica: si tratta ora di un genere codificato, con esponenti dalle carriere che spaziano decenni e con decine di album alle spalle. Non è più un’avanguardia, il suo scopo non è più quello di andare dove nessuno era mai giunto prima, ma non per questo deve essere considerato inferiore.

Il suo scopo è catalizzare le emozioni, è liberarle, è comprenderle, è trasformarle, è trascendere la sua stessa natura musicale diventando un tutt’uno con quello che abbiamo dentro. E ci riesce. Puntualmente.

Nel 2021 quasi tutti i gruppi menzionati in questa terza parte hanno prodotto uno o addirittura due dischi. I God is An Astronaut hanno sfornato una perla di violenza emotiva che porta la furia chitarristica dove per loro non era mai stata; nella loro danza di anime erranti i MONO hanno sconfinato su territori allo stesso tempo techno e minimalisti estremi. I Mogwai continuano a produrre suoni strepitosi e per la prima volta hanno portato un disco Post-Rock in vetta alle classifiche inglesi; i Godspeed You! Black Emperor sono tornati con un nuovo manifesto politico ficcante, e con dei picchi emotivi tra i più alti di sempre. Gli Explosions in The Sky si sono finalmente cimentati nella più adeguata delle colonne sonore: un documentario sulla natura. I God is An Astronaut e i MONO hanno anche due dischi dal vivo di qualità eccelsa: i primi un live in studio di All is Violent All is Bright che lo aggiorna al post-pandemia, e i secondi un concerto con l’orchestra che riesce a renderli più pesanti ed emozionanti allo stesso tempo. I nostri Giardini di Mirò sono arrivati a sorpresa con una composizione di venti minuti tra il prog e il Post-Rock, e anche il progetto Australasia ha regalato un singolo davvero inatteso. Infine, il ritorno dopo sei anni dei Maybeshewill, in uscita tra qualche settimana e anticipato dai singoli Refuturing e Zarah, ha un potenziale da disco dell’anno.

Non sarà la rivoluzione. Ma c’è tanta qualità in un mare di emozioni. Io mi accontento.

Luca Di Maio

Parte 1 – Il Proto Post-Rock dai Velvet Underground a Talk Talk e Slint
Parte 2 – La prima ondata di inizio anni ’90
Parte 3 – La seconda ondata dalla fine degli anni ’90 a oggi

Breve bibliografia relativa a tutte e tre le parti:

Martin, Bill, Avant Rock: Experimental Music from the Beatles to Bjork
Leech, Jeanette, Fearless: The Making Of Post-Rock
Chuter, Jack, Storm Static Sleep: A Pathway Through Post-Rock
Reynolds, Simon, Blissed Out: Raptures of Rock

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