Sono passati quasi quindici anni dalla prima volta in cui il buon Fabio mi ha chiesto di andare con lui a un concerto degli Editors. Era il 2008 e si esibivano al Velvet di Rimini, nel nostro locale della vita per il tour di quello che ancora oggi è il mio album preferito nel gruppo. Non ci sono andato, e alla fine nemmeno lui. E non sono andato nemmeno le altre volte, l’ultima delle quali nel 2018 al Paladozza di Bologna, e incredibilmente nemmeno lui. Ormai gli Editors li ho persi di vista, tra un disco danzereccio e l’altro, ma contro ogni pronostico finisco finalmente per seguire Fabio a Bologna in uno scambio culturale che lo porterà a seguirmi a Milano per i Porcupine Tree. E… wow! Che concerto!
Le mie aspettative erano neutre, avevo ascoltato un paio di volte il loro ultimo disco EBM, trovando qualche soluzione interessante, ma anche troppi pezzi clubbettoni piacioni. Come i fan che odio di più al mondo speravo di sentire Papillon e il maggior numero di canzoni possibile di An End Has a Start, e sarei stato contento. Sono stato accontentato, ma ho avuto anche molto di più.
La setlist è stata principalmente incentrata su EBM, con sette pezzi dell’album riproposti dal vivo, seguiti da tre estratti dal mio disco preferito e dal debutto, e con gli altri a giocarsene uno o due. Ed è stato tutto bello.
Prestazione spaventosa di Tom Smith che fa assolutamente quello che vuole con la voce, balla, suona e si diverte. È chiaramente un timido, perché non guarda il pubblico in faccia, non lo ingaggia, non lo sfida, nonostante non stia fermo un secondo, e forse è anche quello il suo bello. Fabio mi ha fatto visualizzare una cosa interessante dicendo che “è incredibile come il pubblico fosse così carico quando sul palco non stavano facendo nulla di realmente attivo per coinvolgerlo, stavano solo spaccando il culo”.
Esattamente. A parte un paio di richieste di mani alzate e due saluti, sul palco si pensava a suonare, ma soprattutto a divertirsi. E il pubblico rispondeva di conseguenza, cantando, ballando e divertendosi. Smith durante i nuovi pezzi si trasformava in una animale da pista godendoseli e ballandoseli tutti. A prescindere dai gusti che ognuno di noi può avere, è evidente che lui ami veramente le loro ultime produzioni. E quindi noi saltiamo, e ci divertiamo, e urliamo. Serve ad altro un concerto?
L’ingresso di Blanck Mass nel gruppo è riuscito a quadrare un po’ il loro sound, assolutamente perso dopo l’uscita del chitarrista originale Chris Urbanowicz. È chiaro che lo ha fatto a suo modo, ma se la chiusura con Papillon è stata così strepitosa, lo si deve anche a lui grazie ad un immenso carico di loop aggiuntivi devastanti.
I pezzi vecchi sono stati suonati in maniera coinvolta e rispettosa, senza incorporare quasi per nulla il nuovo elemento elettro, e va bene così. Saltare così da un disco all’altro ha dato ancora maggiore evidenza del grande eclettismo del gruppo. Partito da quello che era un canonicissimo Post-Punk revival debitore ai soliti noti, per poi passare per Johnny Marr, per una dark-wave da goth club, da un breve momento Coldplay, finendo per unire un po’ tutto con un retrogusto house. Gli Editors sono arrivati sempre con qualche anno di ritardo rispetto al picco di popolarità dei vari generi; quindi tenderei a considerarli semplicemente un’espressione dei gusti del gruppo, nel bene o nel male.
Io mi sono divertito e non esiterò a tornare a vederli in futuro. Bones, Papillon e In This Light and on This Evening sono i miei highlight, ma non mi dispiacerebbe assolutamente ballare di nuovo una Karma Climb o una Strawberry Lemonade. A casa continuo ad ascoltare i primi tre dischi, ma voglio comunque che continuino ad andare avanti facendo quello che gli piace. È indubbiamente più importante che piaccia a loro piuttosto che a me.
Luca Di Maio