Ho un pezzo trance tamarrissimo in cuffia che mi spedisce in orbita, per un po’ non penso a nulla. Poi un flash di pensieri sparsi, un viaggio indietro nel tempo fino alla fine degli anni ‘80: io con i vinili di Genesis e Pink Floyd logorati fino al midollo dalle testine del giradischi, poi le musicassette piene di elettronica pacchiana made in ’90. Ma come ho fatto ad arrivare ad ascoltare sta musica?
Capire il nostro percorso musicale mi affascina sempre tantissimo. Ho cercato di riordinare i vari tasselli della memoria e sono giunto alla conclusione che, nel mio caso, il periodo più rilevante è stato quello a cavallo tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del 2000.
E per voi? Magari vi ritroverete nella mia esperienza.
Il Metal, il punk e le contaminazioni. La scossa dei System of a Down e poi Il grande trio: Slipknot, Linkin Park, Limp Bizkit.
Siamo alla fine degli anni ‘90, il rock è in una fase di grande destabilizzazione dopo l’ondata grunge che ha spaccato il pubblico in due: chi lo demonizza e chi lo beatifica. La spaccatura tra “veri rockers” e “altri” è evidente ovunque ma, mentre in altri paesi vi sono festival che vedono Marylin Manson e Armin Van Buuren condividere lo stesso palco, in Italia gli organizzatori devono stare attenti a chi si fa suonare altrimenti volano (realmente) bottigliette sul palco. Gruppi, etichette, contrasti. Nulla di clamoroso, è sempre stato così, anche se in cuor mio ho sempre sperato che tutto questo cambiasse, per il bene della musica.
Poi un altro fulmine a ciel sereno: i System of a Down, che con il loro album di debutto finiscono per accompagnare in tour Slayer e Metallica. A quel tempo non ce ne rendiamo ancora conto, ma da questo punto in poi cominciano ad allargarsi gli orizzonti musicali per una buona fetta di generazione, soprattutto per chi ascolta principalmente metal. La band armena tira fuori una produzione geniale, inaspettata, spiazzante, in grado di farsi apprezzare da quasi tutti.
Prima di loro i Rage Against The Machine hanno seguito le orme di Beastie Boys e Public Enemy esasperando la fusione tra hip hop e riff pesantissimi. Il loro messaggio politico è ancora più potente proprio grazie a una fusione di generi considerata impensabile fino a pochi anni prima.
Rotto il velo del “musicalmente corretto” si fanno avanti prepotentemente altri gruppi che fondono musicalità e generi prima parecchio distanti tra loro. In prima linea Slipknot, Linkin Park e Limp Bizkit. Cantato rap e growl nello stesso brano, elettronica, mixer, riff pesanti e percussioni. Chi è legato al concetto più viscerale di rock o metal è scettico, non accetta il cambiamento, ma si deve arrendere all’evoluzione: iniziano gli anni del nu-metal e del ritorno del punk californiano.
Il Rock Post 2000. Il ritorno nel mainstream e album che lasciano il segno.
Su MTV finalmente in mezzo alle tonnellate di pezzi pop e R&B cominciano a comparire clip che abbracciano noi rockettari. Blink182, NoFx e Offspring rispolverano il punk sgrezzandolo e rendendolo più appetibile al mainstream divertendoci e facendoci ballare. I System of a Down continuano a farci pogare, Manson ci fa apparire brutti e cattivi, mentre Foo Fighters e Red Hot Chilli Peppers mettono d’accordo praticamente tutti. Inizia un periodo musicalmente eccelso, a mio parere clamorosamente sottovalutato. Sono tantissime le band da nominare, ma per quanto mi riguarda in cima a tutti ci metto Queens of The Stone Age e The White Stripes. Alla band americana servono due album in studio, un arresto a un concerto per atti osceni, e soprattutto l’inserimento di Dave Grohl alla batteria, prima di servire l’ace vincente con il loro terzo album Songs For The Deaf. Un concept partorito dal cantante e chitarrista Josh Homme durante i suoi viaggi nel mezzo del deserto californiano. Ispirato dalla sua autoradio che cambiava continuamente sintonizzazione passando da stazioni con sermoni religiosi a musica tremenda; e così, per puro caso, nasce un capolavoro dello stoner rock moderno. La popolarità dell’album arriva ai massimi livelli nel 2003 quando diventa disco d’oro, e i singoli No One Knows e Go with the Flow imperano su radio e MTV.
Più veloce la scalata di Jack e Meg White che tutti ricordiamo per Seven Nation Army. Siamo sempre nel 2003 ed il loro Elephant è un’altra gemma incredibile: un sapiente mix di generi, il blues abbinato a distorsioni metal, basso insistente e percussioni tonanti.
Cosa rende speciali queste due band e questi due album in particolare? L’essere riusciti a unire generi differenti tra loro, come hanno fatto in tanti, ma esserci riusciti alla perfezione, tanto da aver lasciato un segno profondo nella definizione di “rock alternativo”.
L’elettronica stringe l’occhio al Rock.
Torniamo alla fine degli anni ’90, ma abbandoniamo un attimo il mondo del rock focalizzandoci sull’elettronica. Siamo negli anni dell’eurodance; melodie orecchiabili strettamente pop dominano le radio senza rivali. Ma è in arrivo un duo londinese, i Dust Brothers, poi rinominati Chemical Brothers, che mette un po’ di pepe incrudendo sensibilmente il sound. Ancora una volta in Gran Bretagna nasce il Big Beat: ai classici beat dance e techno si aggiunge del trip-hop e una dose importante di rock psichedelico. Con i Chemical alzano la voce anche Prodigy, Fatboy Slim e Crystal Method. I DJ Set sono violenti, paragonabili a concerti metal. I beat sono potenza pura, ma fanno da tappeto all’ingresso di influenze jazz, soul e funk (Fatboy Slim), hip hop e psichedelica (Chemical Brothers).
Si sono ormai rotte le barriere che distanziavano generi e ascoltatori all’apparenza incompatibili. Ora si balla elettronica pogando durante il ritornello; è tutto strano e bellissimo allo stesso tempo.
L’evoluzione dell’indie fino ai giorni nostri
Post 2000. Analizziamo tutto quello detto fino ad ora: il ritorno del punk rock, la nascita dell’alternative rock, l’elettronica psichedelica. In tutti i generi c’è un minimo comune denominatore: la rottura delle barriere di un sistema che stava procedendo troppo inchiodato su dei binari. Il web fornisce conoscenza e musica a valanga, l’utenza si rende sempre più conto di non voler più solo il pop commerciale e di essere più “libera”; senza doversi per forza definire in un unico genere musicale. Ma mentre le major non vogliono assumersi rischi continuando a puntare su vendite garantite da singoli pop e boyband varie, c’è una fetta di artisti che prende coraggio e si butta nella mischia a testa bassa, con l’appoggio di etichette indipendenti o addirittura autofinanziandosi.
Sono gli anni dell’indie rock; movimento partito già in Gran Bretagna negli anni ‘80, esploso con i Radiohead e contemporaneamente mutato nel brit-pop di Oasis e Blur. Il tutto a cavallo dell’uragano grunge in America. Ma è proprio subito dopo queste ultime escursioni del rock nel mainstream che a inizio 2000 l’indie rock passa da movimento a vera e propria definizione di un genere.
In Gran Bretagna ci si trova evidentemente a proprio agio quando si parla di movimentare la scena. E infatti proprio oltremanica nasce una grossa fetta di importanti band alternative rock che rinfresca un genere sempreverde ma un po’ stantio. Lo fanno strizzando gli occhi al passato infondendo più grinta e energia nelle tipiche sonorità anni ottanta. Primi tra tutti i The Strokes, che sbancano in patria con Is This It, seguiti da Bloc Party, Arctic Monkeys, The Libertines e Franz Ferdinand, solo per citare i più importanti. Il rock torna sule piste da ballo, ma questa volta lo fa urlando tutta la sua rabbia.
Come spesso accaduto anche in passato, l’ondata britannica non si ferma in patria e si espande in tutto il globo. In Italia tra i primi ci sono Marlene Kuntz, Verdena e Afterhours. Si tratta di uno dei periodi più importanti della storia della musica recente, nel bene e nel male.
Potere al Popolo, primo round all’Indipendenza.
L’industria discografica era in grave crisi, ma per colpa di chi? In un sistema quasi totalitario era facile propinare alla massa la stessa polpetta confezionata, garantendosi vendite da record puntando sul sicuro. Ma la diffusione, il web e i primi social hanno scoperchiato un vaso di pandora e spaccato un sistema. Di chi è la colpa quindi? Del demone della conoscenza, di internet, o di chi bocciava idee magari geniali perchè “tanto non avrebbero venduto abbastanza”? Questo non è successo solo nella musica, ma è un torrente che ha travolto anche l’industria del cinema, dei videogiochi, della letteratura. E io ne sono molto contento. Grazie a chi ci ha creduto, grazie a chi è andato controcorrente, a chi ci ha messo la faccia per autoprodursi, a chi ha rischiato la propria carriera per darci qualcosa di più “della solita polpetta confezionata”.
Ma oggi? Il capitalismo alla fine vince sempre.
Il panorama musicale moderno, perlomeno quello che vomitano i media, sembra di nuovo a un punto di stallo:
- L’indie da “movimento svolta” è diventato un genere nel quale è difficile trovare qualcuno di integro tra una marea di gruppi clone sfruttati dalle major.
- I talent tirano spesso fuori dei pezzi da novanta, anch’essi immediatamente plasmati dai colossi e preconfezionati per la massa.
- La trap è talmente in voga ed influente da riuscire a condizionare e avvelenare anche altri generi, oltre a talent e festival.
È inutile ribadire che tutto gira attorno al denaro; è sempre stato così ed è normale che lo sia. Ma rispetto al passato abbiamo sicuramente molti più mezzi per poterci avventurare al di fuori del mainstream. Alimentando la nostra voglia di conoscenza possiamo approfondire quello che più ci piace e scoprire continuamente cose nuove con una facilità unica nella storia umana.
Basta volerlo.
Fabio Baroncini
La playlist che vi proponiamo parte con un introduzione di collegamento ai primi anni ’90, per poi esplodere in tutti i gruppi che hanno illuminato il periodo immediatamente successivo. In mezzo agli artisti che hanno scritto pagine importanti di storia, trovate anche delle chicche meno conosciute. Speriamo che vi porti almeno una lacrimuccia nostalgica come ha fatto con noi.
Come spessissimo succede, per non dire quasi sempre, articoli come questo sono influenzati da una cosa sola: l’età dell’articolista, dello scrivente.
Io non voglio giudicare i suoi gusti musicali, voglio solo che chi mi legge tenga di conto quello che ho scritto nell’incipit: conta l’età di chi scrive l’articolo, di chi elenca i propri gusti musicali.
Tutti noi diciamo “la musica dei miei tempi…”, ecco, appunto.