I puristi delle varie sottocategorie del Folk Metal mi odieranno già dal titolo, dato che in questa corrente, che per Dio ha i suoi pregi, è già presente una sotto-sotto categoria dedicata esclusivamente al Viking Metal.

Come se ci fosse bisogno di auto ghettizzarsi ancora di più. Negli anni ‘90 e nei primi 2000, con un barlume di speranza per la tendenza del metallo di auto-costringersi in categorie sempre uguali a sé stesse e un tantinello asfittiche, nacque, sulla scia degli Orphaned Land, la corrente dell’Oriental Metal. Rispetto al solito folk i cambiamenti erano notevoli: si parlava di Bibbia e non di Nibelunghi, alcune band introdussero antichi salmi della Torah in mezzo a riff di chitarra e utilizzarono alcuni strumenti tipici di quei paesi e li mescolarono con le sonorità metal. Strumenti come il Shofar, l’ormai conosciutissimo Bouzouki o quell’arnese dal suono divino che è il Santur (uno strumento a corda, ma che deve essere suonato a percussione. Immaginatevi la poesia di un piano, ma pestato con la cattiveria di una batteria. A D O R O). Era un bell’esperimento. Peccato che abbia avuto una ristretta prosecuzione, esplosa al grande pubblico solo tramite alcuni gruppi, come ad esempio i Myrath, che immetteranno sul mercato il prossimo 3 Maggio la loro ultima opera, Shehili, sempre tramite earMUSIC.

Uno dei punti di forza  del Metal Orientale è stato quello di proporre a noi ottusi occidentali un nuovo approccio al loro modo di vivere e di essere visti. Gli Orphaned Land, ad esempio, ci hanno dato  la possibilità di esplorare la loro cultura da un punto di vista diverso dal solito. Like Orpheus, nella quale come guest star c’è niente meno di Hansi dei Blind Guardian, è una delle canzoni più belle, e con un video emotivamente impattante, degli ultimi tempi.

Peccato che questa corrente sia durata poco, o perlomeno, non sia mai diventata così vasta come il Folk Metal standard. Non è mai andato oltre i Myrath e pochi altri gruppi.

La cosa stupenda del Metal, come genere musicale, è la sua capacità di parlare, molto più di altri generi underground, alle idiosincrasie e al bisogno di appartenenza di noi poveri sciocchi umani.  In ogni parte del mondo, ormai, c’è una piccola comunità metal. Andando a toccare centri archetipici della formazione del nostro io psichico come il bisogno di appartenere ad un gruppo, essendo noi animali “politici”, ossia un politikòn zoon, è naturale e oserei dire, normale, che in ogni stramaledettissimo angolino sperduto del globo dotato di una connessione o anche solo “comunicazione” col resto del globo, ve ne sia formata una comunità.

Se ami il metallo, ti senti appartenente ad una comunità che ti accetterà coi tuoi vestiti neri, le borchie, e tutto il corollario in qualunque strada del pianeta. Mai capitato di incrociare lo sguardo di un blackster sconosciuto in un supermercato? Mai capitato quel momento di condivisa fratellanza mentre ci si scruta reciprocamente la maglietta? Magari il gruppo pittato sulla “divisa” del nostro incontro casuale ci fa pure schifo, ma in quel momento, nell’istante in cui ci si incontra tra una corsia di latticini e prodotti per incontinenti, ci si riconosce nell’altro, se ne apprezza la differenza dai nostri gusti e ci si saluta alzando le corna al cielo.  Addirittura ci si abbraccia.

A me è capitato un trilione almeno, di volte. Ovunque. In fila per entrare a Notre Dame, lungo le corsie di Harrods, mentre visitavo Auschwitz, in posta, OVUNQUE.  E questo senso di appartenenza è tanto profondo da subissare le differenze di origine etnica del singolo. Ho un ricordo stupendo a proposito: nell’edizione 2010 del Wacken, girando per la tendopoli, ci imbattemmo in un crogiuolo che batteva tenda Israeliana, al cui centro un gruppetto di ragazzi stava fumando un narghilè. Ci sedemmo a parlare, in inglese, e nel giro di due minuti ci rendemmo conto che metà del gruppo era formato da ragazzi palestinesi, che ci raccontarono, assieme ai “padroni di tenda” israeliani, come vivessero nel loro paese.

E’ per questo che per molto tempo ho provato un senso di fastidio a sentir categorizzare come “Folk” (da folklore, ossia sapere del popolo) solo testi di sapere norreno e solo strumenti di derivazione nordica. A un certo punto però, il mio viaggio ebbe inizio…

India

Il mondo è stupendo, variopinto, eterogeneo. Finché un bel giorno, Spotify non mi ha fatto un regalo inaspettato: i Bloodywood. Questi ragazzi indiani fanno Indian street metal e fondono sonorità tipiche di Bollywood (sì, avete capito bene) con il metal. E lo fanno dannatamente BENE. Se volete alzarvi bene al mattino, metteteli in cuffia e via. La giornata prenderà una piega diversa, e se vi concentrerete un secondo vedrete i colori attorno a voi diventare molto più vividi e vi verrà voglia di lanciarvi in una di quelle coreografie assurde da matrimonio indiano in grande spolvero. Vi consiglio Ari ari ari.

Syria

Poi ci sono i Gene Band, gruppo Syriano di Damasco che scrive i testi solo in siriano, ma usa melodie e sound non troppo innovative, infatti si fregia di comporre Heavy Rock. La particolarità sta proprio nella scelta del siriano per i loro testi. Il suono della loro lingua su melodie così aggressive dà comunque vita ad un connubio particolare. Una volta nella vita va ascoltato. Dei Gene Band vi consiglio Ya Waladi.

Africa

Continuiamo il nostro tour nel folk metal che si tinge di nazionalismi vari e approdiamo in Africa. In Angola il metal è stato al centro di un film  Death Metal Angola (del quale vi consiglio assolutamente la visione), in cui questa musica così dura diventa il fulcro della rinascita di un paese devastato dalla guerra attorno alla creazione di un festival rock. Poco più avanti, in Mozambico, altro assolato paese africano c’è un gruppo, gli Scratch, che fa Black Metal. La cosa stupenda è che fondono le sonorità tipiche delle loro canzoni popolari, molto “allegre” e ritmate, con strumenti moderni e riff tipicamente rockeggianti.
Purtroppo su Spotify non esistono, pur essendo molto conosciuti. La cosa fantastica degli Scratch è che, oltre alla loro capacità di stare con giubbotti di pelle, borchie e trucco degno di un blackster norvegese a 40 gradi centigradi,  non risentono di una scarsità di mezzi economici palese e riescono comunque ad arrangiare pezzi credibili e convincenti.
In pratica riescono a girare addirittura dei video pur non avendo, seriamente, nulla! La stessa cosa accade nella sopracitata Angola, anche se in modo ancora più emotivo e impattante. Tutto questo lo potrete approfondire nel film proiettato al DOC NY. Ah, gli Scratch sono un po’ l’orgoglio della  comunità mozambese , che li supporta in tutto, anche nel pittarsi la faccia di bianco. Se non è amore questo…
Vi lascio il link a Va Fambi Amussiya.

Giappone

Nella patria del Sol Levante, dopo averci propinato le Baby Metal, averci rincoglionito col VisualKey, finalmente si scopre una fonte genuina di metal popolare dalle sonorità finalmente originali e impattanti. Ecco a voi i Wagakki Band. Tengaku è sicuramente il loro cavallo di battaglia. Il loro mix vincente? Strumenti tipici giapponesi, vestiti tipici, e linee vocali estratte direttamente dalle canzoni popolari giapponesi.

Fort Wayne, Indiana

C’è un progetto particolarissimo, che unisce musica araba e metal moderno. Nato dalla fantasia compositiva di Matt Zuleger, ha visto per pochissimo tempo la collaborazione di Shawn Andrews, ma poiché i due non erano in grado di andare d’accordo, il progetto è rimasto nelle mani di Matt. Fanno solo musica influenzata dalle sonorità arabe, fuse al djent e al metal. Sì, il progetto è nato in Indiana, USA, e non in Marocco o Arabia Saudita, ed è incentrato sullo sviluppo strumentale delle canzoni.

Mongolia

I The HU, uniscono tematiche tipiche dell’epoca mongola, con tanto di citazioni del Gran Khan, strumenti tipici e canto vocale di gola mongolo. Ormai anziché cavalcare cavalli, attraversano l’altopiano su più moderne Harley Davidson e al posto delle Yurta usano più moderne Quechua, ma pare che la vita da motociclista sia quasi il naturale proseguo della loro cultura, solo in versione 2.0, a giudicare da quanto gli viene bene. Vi lascio il video di Wolf Totem, pregandovi di ascoltarvi tutto, ma proprio tutto ciò che hanno creato.
Ah, come se non bastasse, il loro governo ha appoggiato e contribuito nella creazione di questo video.
Alla popolazione Mongola il metal piace veramente un sacco: l’altra band più popolare nella regione è quella degli Hanggai, vi lascio The Rising Sun. I loro fan dicono che il cantante sia la reincarnazione di Gengis Khan in persona.

Mongolia e Irlanda

Sì, se vi state chiedendo come sia nato questo sodalizio, sappiate che anche noi ci stiamo facendo la stessa domanda. Quella che vi lascio sotto invece è una vera e propria chicca di fratellanza nel metallo e nella musica: il padre della modernizzazione del canto vocale mongolo, Batzorig Vaanchig, che ha avuto parte anche nella fondazione dei  The Hu, ha creato un singolo assieme alle cornamuse tipiche Irlandesi. Ecco a voi: Hunnu Guren – Batzorig Vaanchig & Auli.

Cina

Quando uno pensa alla musica cinese è impossibile che non gli venga in mente la canzone del Fiume Giallo.
Ebbene, c’è un gruppo metal cinese che usa strumenti tipici come lo Yangquin, ed ha intitolato addirittura il loro brano più famoso al fiume Giallo. La Band si chiama Black Kirin.

Grecia

Poi una mattina il signor Marc Jungermann si è alzato e ha deciso che la Grecia non poteva accontentarsi del Sirtaki. Va bene che la musica popolare deve rimanere il più pura possibile, ma a lui proprio non andava giù, quindi ha preso il suo Kemenci, il suo Bouzouki, e la sua Lira Cretese e li ha usati per suonarci del metallo, unendoli ovviamente a batterie e chitarre moderne. Il risultato? Una figata.
Effettivamente Marc sa esattamente cosa fa e nelle sue opere, a metà tra il dark, il folk il metal e l’industrial ha dato prova più di una volta di essere un numero uno. Ecco a voi Hellas, del compositore Marc Jungermann.

Nella cassetta allegata trovate i pezzi di tutti i gruppi di cui non abbiamo messo il link al video. Vi aspetta un viaggio nel viaggio.

Elena Liverani

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