Nuovo episodio di “Fosforo”. L’obiettivo è sempre quello di ricordarvi cose, punzecchiare la vostra mente, focalizzare la vostra attenzione e svegliarvi dal torpore. Oggi trovate quattro pillole da tre MangiaCassette diversi.

Come sempre ci facciamo aiutare da supporti video e dalla playlist “Fosforo” che aggiorneremo ogni volta con le nuove pastiglie dell’elemento miracoloso.

Fosforo sta avendo un suo un suo sviluppo anche sul nostro sempre più seguito canale Instagram. Stiamo producendo dei brevi video nelle storie in cui parliamo degli stessi temi e condivideremo immagini di video, citazioni e altro materiale.

E ora andiamo avanti.

Chet Faker aka Nick Murphy o viceversa?

Soggetto particolare il buon Nick Murphy che dall’Australia ha riabbracciato per gli ultimi progetti il suo alter ego Chet.

Un passo indietro. Nel 2016 Murphy decide di pubblicare con il suo nome e cognome per segnare un’evoluzione di percorso. Nel 2020 ecco che l’alias Chet rispunta con il singolo Low. E da qui tutte le recenti uscite saranno targate Chet Faker per finire nell’album appena uscito, fresco fresco, Hotel Surrender.

“Low” è l’altro singolo uscito in era pandemica che ha un testo decisamente interessante per la facile descrizione di un sentire che accomuna tanti. Un rapporto a due? Forse. Segue Get High e il manifesto Whatever tomorrow a completare la riflessione: abbiamo bisogno delle nostre vite adesso. Vogliamo l’uovo ‘che sta gallina, invece, cos’è? Che vuole? Quindi una proposta musicale che potrebbe essere una sorta di raccolta terapeutica di massa durante e post covid? Forse. E l’auto analisi è un po’ il leit motiv di ogni sua produzione.

Ovviamente non è l’unico ad aver usato la creatività per esprimere un sentire più o meno soggettivo.

Allora, perché l’australiano di Melbourne potrebbe incuriosirvi?
Diciamo che la “r” moscia in inglese ha un qualcosa di straniante e altrettanto musicale che firma tutto in una chiave unica. Sia in versione Murphy sia Faker. A volte troppo trascinata, a volte uno strumento.

Tornando ai vecchi album, vi segnalo due quasi ballad. “Talk is cheap” e “Gold” che oltre ad essere dei brani che hanno un non so che di dolcemente invasivo, sono corredate da video decisamente suggestivi e ben fatti, probabilmente che hanno ispirato anche altri dopo. In realtà i concept originari (su cui non ci soffermiamo troppo) rimandano a dei grandi, ad esempio scelte visive di un Peter Gabriel, per dirne una. Quello che fa Murphy è sempre aggiungerci una nota personalizzante che ritara su misura la cifra stilistica. Notevoli i visual anche delle ultime tre uscite.

Cosa aspettarsi? Vibes che si sposano con la malinconica presa di coscienza di un’estate emotiva che alla fine non esplode mai, ma in fondo potrebbe anche andare bene così. Un flusso morbido. Stay smooth, feel good.

(Sara Capoferri)

Oh, inverted world – The Shins

Venti anni fa giusti giusti – 19 giugno 2001 – veniva pubblicato “Oh, inverted world”, disco di esordio della band americana dei The Shins. Il plauso di critica e pubblico fu unanime e il disco segnò la storia dell’indie alternative – rock. Tanto che per festeggiare questo importante compleanno è appena uscita una ristampa di questo che fu fra i primi dischi a diffondere il verbo del pop indie. Nella ristampa saranno comprese foto, testi scritti a mano e note di copertina. Con i colori invertiti. Simpatici.

Si tratta di un album molto leggiadro, lieve, allegro, un po’ come la musica dei Beach Boys ti porta sulle onde a fare surf, anche se non hai mai visto l’oceano.

La voce di James Mercier incolla tutti gli elementi che formano questa musica “leggerissima” (scusate) aggiungendo una venatura acidula che pesca questo album dal suo tempo e lo rende attuale. Ma la vera caratteristica è il dualismo che impregna il disco, perché la musica così fluente è in perfetta antitesi con i testi che scanagliano tra l’insofferenza e il rammarico e risvegliano i fantasmi racchiusi nell’anima di ciascuno di noi, quasi in modo irrisorio.

Tutti i pezzi del disco sono caratterizzati da una intro molto flash e l’opentrack “Caring is creepy” sembra un monito: “attenti che ne sentirete delle belle”, sembra volerci avvisare. L’album è una specie di puzzle composto da tessere che si intarsiano perfettamente tra di loro ma che hanno storia a sé.

Tra queste quello che fu il primo estratto “New Slang” è diventato quasi un brano cult per essere parte di uno storico spot della McDonald’s e anche nella colonna sonora de “I Soprano”.

Il disco scorre facilmente all’ascolto, sembra uno di quei libri brevi e scritti molto bene che ti regalano attimi di serenità e leggerezza.

E dopo venti anni è ancora così.

(MaRo)

Garbage are back.

Nessun dio, nessun padrone.
È con No Gods No Masters che sono appena tornati i Garbage, in grande stile.
Shirley Manson e soci portano un album, il settimo, con copertina rosa ma che di delicato o girly ha ben poco. In fondo che il rosa sia un colore associato al femminile è qualcosa di relativamente recente, in passato era un discendente diretto del rosso. Ci piace pensare che la cover di questo ultimo ensemble dei nostri sia su questa china. Calma, altruismo, sensibilità verso l’altro e un certo dualismo.
Ascoltando i primi singoli questa visione calza. Il gruppo ha creato infatti una sequenza di contenuti in note ispirati al periodo del lockdown e progress post pandemico. Un disco emotivo. Un disco coinvolto socialmente. The men who rule the world e la title track segnano subito il passo.
Anche i visual scelti sono forti, grafici, in linea con le tendenze illustrative del momento e in sintonia con l’urgenza espressiva.

Ricordo che, però, i Garbage non sono nuovi, ma sono fuoriclasse del genere. Mi ero riproposta infatti di scriverne un pezzo polposo a parte, ma intanto pillole nella pillola di fosforo spero vi siano gradite.

Da sempre Shirley e soci sono precursori e promotori inclusivi. Di matrice genuina.
Queer is not a queer, I think I’m paranoid, Cherry Lips. Le avete senz’altro presenti, ma magari un po’ snobbate?

Sì perché si tratta di una band che ha avuto ottimi riconoscimenti mainstream ma mai troppo celebrati. Ricordo il
tema principale di un Bond, “The world is not enough”, giusto per dirne una.
Shirley è senz’altro una tra le Front woman con più personalità definita e magnetica, che presto è diventata icona, anche se come termine ormai, come tutti quelli abusati, sa di noioso. La Manson non ha però nulla di noioso. Eclettica, intensa e dentro ogni interpretazione. Vi basta guardare qualche live sul tubo per capire cosa intendo. “Sentire” mentre si esegue.

Grandi hit, si diceva, ma anche micro poesie Sturm und Drang. Testi che sconfinano nei mari del rock più alternativo ai correnti più dark. Fiumi di sonorità che non ti lasciano indifferente.
Cito le struggenti “Milk” e “#1 Crush”.

Uno stile, quello dei Garbage, che rimane marchio. Non è moda, è descrizione. Adesione. Fuori dal tempo. Dentro il tempo. Avanti nel tempo.

Not your kind of people, maybe, but mine. Se questa è spazzatura, signori, ditemi voi.

(Sara Capoferri)

BLUE DI JONI MITCHEL: 50 ANNI E NON SENTIRLI

“Blue” è un disco storico, un disco che ha segnato un’epoca e ha sancito definitivamente l’assunzione al cielo delle stars di Joni Mitchell. È il disco che ha cambiato l’idea di cantautorato, considerato fino ad allora un mondo prettamente maschile.

Per festeggiare questo importante compleanno, è uscito pochi giorni fa un EP “Blue 50 (Demos & Outtakes)” con un brano inedito Hunter.

Stiamo parlando di un vero capolavoro.

Le canzoni qui contenute sono delle autentiche perle, sincere e profonde. Vere. Sobrie addirittura, considerando il periodo hippy di diffusa ribellione anche nei costumi e nella musica che doveva essere rumorosa e arrabbiata per sputare fuori tutto il sentimento di rivolta di quell’epoca. Invece questo disco no. Questo disco è soffice. La voce di Joni è davvero come un magnifico tappeto magico su cui volare sull’animo umano e sulle sue sofferenze più intime.

Lei che aveva cominciato a suonare da bambina e aveva sviluppato la sua passione musicale dopo la guarigione dalla poliomelite. Lei che era stata sostenuta dal suo insegnante al quale aveva dedicato nel 1968 il suo album d’esordio. Lei, splendida elegante talentuosa potente voce eterna.

Il tema che caratterizza tutto il disco è il malessere interiore, raccontato con spudoratezza e sincerità, senza filtri e senza ironia. Sic et sempliciter.

E nonostante questo perenne sentimento di tristezza, non si smette mai di cercare la felicità che però può contrastare con l’amore; e così si entra in un loop di malinconia che raccontato con la voce della Mitchell diventa quasi più sopportabile. La sua voce è veramente lo strumento caratteristico del disco, sottile e penetrante, ma nello stesso tempo dolce e femminile. Sincera.

“Blue” i suoi cinquant’anni li porta veramente molto bene: ascoltatelo e lasciatevi cullare. Farà bene alla vostra anima e alle vostre orecchie.

(MaRo)

 

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