Terzo episodio di “Fosforo”. L’obiettivo è sempre quello di ricordarvi cose, punzecchiare la vostra mente, focalizzare la vostra attenzione e svegliarvi dal torpore. Oggi trovate quattro pillole da tre MangiaCassette diversi.

Come sempre ci facciamo aiutare da supporti video e dalla playlist “Fosforo” che aggiorneremo ogni volta con le nuove pastiglie dell’elemento miracoloso.

Fosforo sta avendo un suo un suo sviluppo anche sul nostro sempre più seguito canale Instagram. Stiamo producendo dei brevi video nelle storie in cui parliamo degli stessi temi e condivideremo immagini di video, citazioni e altro materiale.

E ora andiamo avanti.

The Heavy

Fosforo di “ma dove li avrò sentiti”. Sì perché le pillole che propongo sono quelle che si scovano nelle soundtrack più disparate. Dalle serie tv che hanno avuto impennate di richiesta e offerta, agli spot, ai videogame, ai trailer di pellicole più o meno note.

La prima band tra gli sconosciuti conosciuti è made in UK. Vi giuro che non l’ho fatto apposta, ma anche stavolta sono i britannici quelli che mi chiamano.

Partita dalla scoperta di loro singoli random, sono finita nel trip di Sons, l’album numero cinque dei The Heavy.
È grazie alla serie Suits che mi cade l’orecchio: gli autori hanno un’abilità notevole, stagione dopo stagione, nella selezione di brani da playlist. Poi dai singoli, il passo è stato breve ed è Sons che mi ha incuriosita.
Prima parola d’ordine funk. Segue rock e certamente r’n’b.
Ve lo dico già. Non è per niente un ascolto difficile, è quello che metti per lasciare andare la testa, le gambe (ottimo per la corsa) e via che si va. I pezzi sono costruiti per essere facilmente tagliati e diventare la colonna sonora di frammenti temporali o sequenze di immagini emotive.

Non a caso i brani dei The Heavy sono stati scelti per diversi media, non solo serie tv ma anche videogame, trailer di film, spot pubblicitari. Del gruppo oltre a tutto Sons, ci sono diversi altri singoli notevoli, ma rimanendo nel quinto vi segnalo Heavy for you, quella che quasi certamente avrete già sentito, Burn Bright (irresistibile funk, gospel e fuoco) e la good energy flowing Fighting for the same thing, calzante per il momento storico in cui siamo.

Un album che direi sicuramente energico, robusto ma al tempo stesso leggero. Un po’ la compagnia di cui abbiamo bisogno quando abbiamo già dato, ma vogliamo bere qualcosa con un amico fidato.

Vi lascio la versione sudata di Burn Bright, live, di come voler esser lì. Non è la registrazione migliore, ma godetevi i bassi, le backing vocals e sentite quanto ci manca l’esperienza del live.

(Sara Capoferri)

Indipendenza Italiana: Giancane

Giancane è uno degli esponenti più rappresentativi della scena indie italiana, ma in pochi sembrano accorgersene.

Ah, “indie”, questa parola che vuol dire tutto e niente, che meriterebbe trattati di mille pagine senza mai riuscire ad arrivare a una spiegazione finale in grado di toglierci ogni dubbio. Un giorno mi piacerebbe scrivere qualcosa di più approfondito, ma al momento mi limito a soffermarmi sull’artista che secondo me meglio rappresenta questa scena, quello che si posizione fuori dalle mode. Perché sì, come tutte le cose che fanno il botto, l’onda è stata cavalcata da centinaia di artisti trasformandola sostanzialmente in una moda. E se apprezziamo un Calcutta, poi finiamo per non riuscire a digerire le decine di cloni che hanno ben poco di vero da raccontare.

Tornando a Giancane: avete presente le valanghe di meme che ci fanno ridere ogni giorno? In mezzo alle decine di geniali, ce ne sono centinaia che cercano di far ridere e non ci riescono. Giancane è la foto dietro al meme ben riuscito. Non è nulla di creato o di artificioso; non vuole far ridere o farti sentire triste; lo fa, lo è, e tutto ciò traspare. Non vuole sembrare un poeta o un filosofo; non lo è, lui è come noi e noi siamo come lui.

Sfacciato, triste, scanzonato, rivoltoso. Dentro ogni sua canzone ci sono tante cose che spesso vorremmo dire, ma non abbiamo il coraggio di farlo. Nel 2020 è uscito Unplugged In San Lorenzo ed è la spiegazione alla mia prima affermazione.

(Fabio Baroncini)

 

Kabat – il concerto più grande che non ti immagini

Ispirato dal buon Fabio e dalla sue scorribande oltre la cortina di ferro, mi sono ricordato di aver vissuto per oltre tre anni in quel di Praga e che, sebbene non abbia esplorato molto la scena locale, qualcosa ho portato a casa: i Kabat.

E non stiamo parlando di un gruppetto che suona nei peggiori pub di Palmovka. Stiamo parlando della band più famosa del paese, dell’equivalente ceco di Vasco Rossi, parlando di popolarità e tipo di fan. Però al contrario del Blasco, i Kabat spaccano il culo.

Iniziano alla fine degli anni ottanta con una sorta di thrash metal che deve ancora tantissimo ai Motorhead, poi si stabilizzano a cavallo del duemila in una sorta di hard rock/metal diretto, semplice e orecchiabile. Se non fosse per la lingua assurda! Il cantante è un personaggio dall’assoluto carisma, non a caso anche attore di teatro e musical, e con una vocalità prorompente. Alternano semi-ballate emotive, mid-tempo pesanti, inni da cantare a squarciagola e qualche pezzo tirato che farebbe piacere a Lemmy. Purtroppo la qualità non è costante e hanno un certo numero di pezzi piuttosto dimenticabili, ma quelli belli sono belli davvero.

Dal vivo sono una forza della natura e il concerto del 2014 per il loro venticinquesimo anniversario è a oggi il concerto singolo (non festival) con la maggior affluenza di pubblico che io abbia mai visto. Quante persone? 75.000. Che rapportate alla popolazione della Repubblica Ceca è un po’ come se in Italia ci fosse qualcuno che fa 450.000 persone. No, nemmeno Vasco. Ma forse nemmeno una reunion dei Led Zeppelin con Bonham che torna dal mondo dei morti.

Ho messo un paio di pezzi nella playlist fosforo, ma intanto guardatevi questo video e ditemi che non ne volete sapere di più.

(Luca Di Maio)

Lola Marsh – She’s a Rainbow

Dice wikipedia: Lola Marsh è un gruppo indie pop israeliana di Tel Aviv. La band è inizialmente un duo formato nel 2013 da Gil Landau e Yael Shoshana Cohen.

Ok, si parla di dream pop principalmente. Prendete le Coco Rosie, aggiungete una spruzzata di Macy Gray, un pizzico della Duffy meno fastidiosa, Mazzy Star, un’estetica semplice, deliziosa, un’espressività coerente e un’alchimia innegabile. Chitarra e ukulele, di cui non sono grande fan, ma se la cosa funziona, perché no. Yael è senz’altro magnetica e con una vocalità in trend con ciò che abbiamo già sentito, tuttavia la personalità è originale, adorabile nel suo essere esattamente a metà tra Penelope Cruz e Audrey Hepburn.

Dei Lola Marsh, mi imbatto in due singoli, però è il primo che mi ha incollato: She’s a Rainbow nella versione live acustico con formazione a tre: voce, chitarra e ukulele.
La ballad ha una spiccata vena malinconica, una sorta di dolce amara constatazione, un ritratto di due persone. Un lui e una lei. Lei che ha tutti i colori dell’arcobaleno, lui che sente di averli dentro ma di non riuscire a farli emergere. Qui l’espediente più interessante: la voce particolarissima di Yael canta il testo che però è scritto dal punto di vista dell’uomo, “a difficult man”. La melodia è come una poesia in note, la potenza espressiva ci trasporta insieme a loro, in un racconto che sa di risveglio, speranza e consapevolezza. La tristezza è solo un velo, sotto i colori. Tutti.

(Sara Capoferri)

 

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