Chi mi legge abitualmente non può non essere a conoscenza della mia adorazione artistica per Steven Wilson; ergo leggere un titolo di questo tenore dovrebbe subito farvi drizzare le antenne.

Giancarlo Erra fa parte di quella nutrita schiera di artisti legati al mondo rock progressivo che gode di una notorietà inspiegabilmente inferiore a quella che si meriterebbe. Per rimanere in Italia ho già parlato di Stefano Panunzi, e uscendo dall’Italia di Tim Bowness; i quali guarda caso sono entrambi legati a doppio filo al buon Giancarlo.

Ho letto di recente una Q&A su Facebook e mi sono soffermato sulla sua risposta alla semplicissima domanda “Come descriveresti la tua musica a qualcuno che non ti conosce?”. “Cerco di non parlare della mia musica se qualcuno non sembra realmente interessato, ma se proprio devo rispondere dico che si tratta di qualcosa tra i Radiohead e i Pink Floyd”.

La risposta è sorprendentemente puntuale. Non capita spesso che un artista riesca a dare delle coordinate così precise e mainstream per definire la propria musica; trovo che tante volte vogliano creare un buffo alone di mistero attorno alle loro influenze, oppure che vadano a ripescare improbabili riferimenti oscuri che lasciano il tempo che trovano. Erra dimostra trasparenza e consapevolezza con questa risposta, in quanto riesce a ridurre ai minimi termini il sound del suo progetto Nosound rendendolo comprensibile a chiunque sia vagamente letterato sotto il profilo musicale. Chiaramente i Nosound non sono tutti lì, e soprattutto i suoi lavori solisti non sono assolutamente lì, ma l’introduzione è perfetta.

E Steven Wilson? Il mio accostamento, per quanto leggermente iperbolico, vuole essere riferito alla parabola della carriera di Giancarlo Erra, al suo approccio filosofico alla musica, al suo eclettismo e alle sue doti a livello di produzione. Mica poco. Ho già detto che i Nosound a inizio anni 2000 erano anche i RedShift, una cover band dei Porcupine Tree?

Il sole

Come per “i” Porcupine Tree, “i” Nosound nascono al singolare, come progetto del Giancarlo Erra polistrumentista che scrive, suona, canta e produce l’album di debutto Sol29. Siamo nel 2005 e il suo mondo ci si apre davanti tra rumore bianco, ambient, atmosfere eteree, malinconia, e chitarrismi Pinkfloydiani. L’influenza di Steven Wilson del periodo tra lo psichedelico e il pop si fa molto sentire (una puntina di The Sky Moves Sideways e più di un cucchiaino di Signify sono parte importante dei suoi ingredienti), ma Sol29 non risulta derivativo nonostante guardi anche più indietro, e allo stesso tempo più avanti.

Credo che il termine “evoluzione” non sia il più corretto per definire il suo percorso, in quanto presuppone che l’inizio sia necessariamente inferiore alla conclusione. Qui invece parliamo di mutamento continuo, di lenta metamorfosi, che a un certo punto accelererà, senza mai perdere la sua tensione esplorativa e di trasformazione. Ma allo stesso tempo senza mai calare di intensità. Tornando a Steven Wilson, trovo che Sol29 sia estremamente più maturo dei primi due lavori a nome Porcupine Tree, come trovo che Erra non abbia un The Incident nella sua carriera; nessuna flessione, solo tanta emozione e tanta intensità. Certo la sua discografia non è quantitativamente nemmeno un terzo di quella di Wilson.

Sentirsi persi tra ripensamenti, luci e oscurità alla ricerca della scintilla

Nonostante Sol29 sia un lavoro di Erra in solitaria, i Nosound sono dall’inizio anche una band live, e di lì a poco diventano anche una band da studio. Il songwriting è sempre a opera del polistrumentista romano, ma il reclutamento di validissimi musicisti anche in studio ne determinerà inevitabilmente una certa direzione parziale.

Lightdark è infatti il disco più classicamente progressive della loro carriera. Il più chitarristico e il più strutturato. Colpisce in particolare perché siamo nel 2008, e quello che io chiamo spesso Post Prog, o Progressive contemporaneo, era ancora agli albori; si era da poco scrollato di dosso la patina Neo Prog e le grandissime difficoltà degli anni Novanta per materializzarsi assieme ad Airbag, Gazpacho, Soup e tanti altri. Sempre con la filosofia di Steven Wilson a fungere da grande fonte di ispirazione.

Passa solo un anno e la differenza tra A Sense of Loss e Lightdark è esemplificata dalle due suite di quindici minuti che li guidano. From Silence to Noise è tra i Pink Floyd quelli veri, e quelli di The Sky Moves Sideways, mentre Winter Will Come riprende ed estremizza tutti quei richiami ambient e classici che erano già presenti in Sol29. A Sense of Loss, infatti, assieme al successivo Afterthought, rappresenta quel momento in cui sembrava che il suono dei Nosound si fosse definito.

La struttura è sempre rock progressivo, ma il minimalismo neoclassico, la musica ambient e il post rock iniziano a contaminarlo rendendo la sua definizione sempre più difficile. La voce filtrata di Giancarlo diventa sempre più tormentata, sempre più emotivamente incerta, sempre più urlata sottovoce. Entrano un quartetto d’archi, entrano suoni elettronici organici, entra una batteria suonata con una delicatezza assolutamente commovente.

E poi? La Scintilla. Il disco del 2016 non è il salto può estremo della loro carriera, ma rimane comunque una sterzata repentina. La struttura dei pezzi è più asciutta, è meno orchestrale, al tatto molto più organico. Rimandi shoegaze fanno capolino sia vocalmente, che chitarristicamente, ma allo stesso tempo l’elettronica è pervasiva, ma con taglio neoclassico.

Un tassello mancante, ma fondamentale è il rapporto con Tim Bowness (la seconda metà di No-Man con Steven Wilson), con il quale nel 2011 partorisce il progetto Memories of Machines. Il disco, inizialmente intitolato Warm Winter, verrà riproposto a febbraio 2022 con il titolo Memories of Machines a nome Tim Bowness / Giancarlo Erra completamente remixato. Parlando della versione originale, troviamo la perfetta combinazione dei Nosound tra Lightdark e A Sense of Loss, e la sensibilità che Bowness portava ai No-Man e porterà successivamente ai suoi primi lavori solisti. Si tratta di Progressive Ambient che mescola alla perfezione un chitarrismo glaciale e il caldissimo crooning di Bowness. Una vera gemma nascosta.

Consenti a te stesso

Scintilla aveva già chiaramente indicato che Giancarlo Erra non voleva ripercorrere i passi di gruppi come i Pineapple Thief; che si sono espressi in modo piuttosto creativo fino a un certo punto per poi finire a ripetere lo stesso disco ad infinitum. No, il suo modello filosofico torna a essere lo Steven Wilson che solo pochi anni prima prese la coraggiosissima decisione di chiudere i Porcupine Tree in rotta per la stratosfera lanciandosi in una carriera solista costellata da originalissime sperimentazioni.

E così arriviamo ad Allow Yourself. Poco prima dell’uscita dell’album comparve sul profilo Spotify del gruppo una playlist intitolata “Where we are going” così descritta da Erra: “Essendo sempre stati categorizzati come una rock band, per qualche ragione quelle che considero le nostre canzoni migliori non hanno mai avuto l’attenzione che meritavano. C’era sempre il pezzo più rock. È giunto il momento di dare un’altra possibilità a queste canzoni perché indicano la strada del nostro prossimo album”.

Nonostante questa selezione, Allow Yourself è destabilizzante, ma finalmente si chiude il cerchio con la definizione data da Erra di recente. Arriviamo ai Radiohead. Quelli di Kid A, di Amnesiac, il Thom Yorke di The Eraser. Il reame è quello della musica elettronica, utilizzando solo synth analogici e nessuna chitarra; ma chiuderla qui sarebbe riduttivo in quanto l’elemento neoclassico portato avanti da Erra tra piano e quartetto d’archi risulta esserne l’ago della bilancia emotivo. Anche vocalmente si libera da ogni inibizione uscendo da qualsiasi zona di confort immaginabile; trova un falsetto mai asettico, un’estensione inattesa, delle linee vocali imprevedibili e dei colori emotivi ancora più sfaccettati.

È un disco difficile che avrà fatto storcere il naso a tanti, ma coraggioso quanto un Insurgentes o un The Future Bites; e infinitamente superiore al secondo dei due.

Ora che le briglie sono sciolte, Giancarlo non guarda più in faccia a nessuno. Nei tre anni successivi sforna i suoi primi lavori solisti Ends e Departure Tapes; però chi si aspettava un’evoluzione di Allow Yourself sarà rimasto nuovamente deluso in quanto questi due album appartengono al mondo della musica classica contemporanea, del minimalismo neoclassico, che io amo chiamare Post-Classico.

Ends vede Erra con il suo piano e dei synth analogici spalleggiato da un quartetto d’archi danese. I movimenti che compongono il disco rappresentano quanto di più malinconico da lui concepito, secondi solamente a quelli che fanno parte di Departure Tapes. Nessuna di queste composizioni sfigura al cospetto di giganti del genere come Olafur Arnalds, Max Richter o Nils Frahm; riuscendo anche a mantenere dei caratteri tecnici ed emotivi assolutamente identificativi dell’artista romano.

In Ends gli archi sono struggenti e resi ancora più tali da synth opprimenti e organici che scandiscono il tempo inesorabilmente fino alla fine. Departure Tapes è stato scritto per catalizzare le emozioni in seguito alla morte del padre, e rappresenta il disco più sperimentale e oscuro della sua carriera. La musica ha una qualità quasi tattile, le emozioni si materializzano come macigni angoscianti e non si scrollano di dosso anche ore dopo l’ascolto. Un disco difficile e stupendo, nel modo più malato possibile.

Presente, passato e futuro

Credo di aver fatto tutto il possibile per evidenziare le innegabili qualità di questo artista e di tutta la sua produzione; ora sta a voi approfondirlo, magari cominciando con la playlist che trovate qui sotto.

Da poco è uscito un nuovo album dal vivo dei Nosound, che trasfigura in modo molto interessante anche alcuni pezzi di Allow Yourself, sta per uscire il remix di Memories of Machines, ed entro fine anno anche la nuova fatica a marchio Nosound. E io non vedo l’ora di vedere dove il mutamento continuo lo porterà.

Luca Di Maio

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