Quando avrò 67 anni voglio essere esattamente come Glenn Hughes. Questa è la cosa che più mi è rimasta inchiodata in testa dopo il concerto di Bologna. Ultimamente di sessanta/settantenni sul palco ne ho visti parecchi, ma nessuno mi ha impressionato quanto The Voice of Rock. Giusto Franz Di Cioccio gli si avvicina da un punto di vista di energia, ma vocalmente anche lui viene letteralmente spazzato via dell’ex Deep Purple.
Da poco più di un anno Hughes ha deciso di portare in giro per il mondo il suo tour Glenn Hughes Performs Classic Deep Purple durante il quale suona pezzi del suo periodo nel gruppo, oltre che al massimo un paio di altri classici precedenti. Per quanto mi riguarda si tratta di un evento imperdibile in quanto ritengo Burn il miglior disco della loro lunga storia, Stormbringer un ottimo lavoro di sorprendente fusione funky/rock, e il sottovalutatissimo Come Taste The Band con Tommy Bolin alla chitarra una vera perla nascosta. Aggiungiamoci che i Deep Purple non suonano nessuno di questi pezzi da oltre venticinque anni, e che se lo facessero ci sarebbe probabilmente da piangere. Soprattutto Ian Gillian lo trovai già piuttosto bollito nel lontano 2001.
Glenn Hughes sembra invece più in forma adesso che negli anni ’70. Farebbe una gran figura anche su pezzi di cui Gillian ha cercato di dimenticarsi (qualcuno ha detto Child in Time?) e a Bologna lo ha dimostrato con una strepitosa versione della abusatissima Smoke on the Water. È sempre stato un cantante rock atipico grazie alla sua voce quasi nera che sprigiona soul e funky da tutti i pori. Adesso lo si nota particolarmente sul basso registro, l’interpretazione su You Keep On Moving è stata letteralmente da pelle d’oca, la sua voce caldissima ha avvolto e coccolato il pubblico lungo tutta la canzone. In altri momenti ha invece sfoderato un pulitissimo falsetto da fare invidia a chiunque. È chiaro che lo stia utilizzando per sopperire al naturale degrado della voce piena di un quasi settantenne, ma lo fa con maestria andando a valorizzare i momenti salienti di tutti i pezzi, uno su tutti Stormbringer, suonata coraggiosamente in apertura.
I musicisti che lo accompagnano sono tanto sconosciuti quanto superlativi. Il batterista Ash Sheehan ci massacra con un velocissimo assolo piazzato in mezzo a una semi-improvvisazione durante You Fool No One, il tastierista Mike Mangan fa il possibile per non far rimpiangere Jon Lord, è una missione impossibile, ma non sfigura assolutamente al suo Hammond. Il chitarrista Soren Andersen, già tanto elogiato da un certo Joe Satriani, è stato impressionante. Uno stile più simile a quello di Bolin, ma per assurdo ha brillato di più sugli assoli di Blackmore. Sarà che per quanto io consideri Ritchie uno dei padri fondatori del metal e un grandissimo autore, non l’ho mai adorato da un punto di vista strettamente solistico. I suoi assoli mi sono sempre sembrati molto sporchi e non eccessivamente emotivi, mentre Soren li pulisce con cura trasferendogli la giusta dose di emozione. In più assomiglia paurosamente al Kevin Sorbo di Herculeiana memoria, soprattutto nell’episodio in cui improvvisa un’esibizione con il liuto.
Il concerto parte dal proto-metal di Stormbringer, passa per le atmosfere squisitamente settantiane di Sail Away e You Fool No One, per il funky di Getting Tighter, con Glenn Hughes che si spara dei break di basso con distorsione smodata e pedale wah, per il blues rock del capolavoro immortale Mistreated (uno dei pezzi più belli della storia, se avete dei dubbi, andate qui) e la conclusiva Burn, anche lei lassù con Mistreated nell’olimpo della musica.
Durante tutto questo ben di Dio la voce di Glenn non perde un colpo: avvolgente, suadente, tagliente e perforante a seconda delle necessità. Ripete in continuazione che ci ama, che ama le nostre famiglie e il nostro paese; essere un Cristiano rinato per qualche ragione gli fa bene, sicuramente non lo ha bruciato come successo a Ken Hensley degli Uriah Heep. Il resto del gruppo lo segue con personalità, ma sempre tenendo rispettosamente presente che si tratta del suo spettacolo; e lui non si tira di certo indietro guidando la truppa con grande carisma per tutte le due ore piene di concerto.
La cassetta ripercorre la scaletta del concerto. Ho cercato di selezionare le migliori versioni dal vivo presenti su Spotify, ma devo dire che rispetto allo spettacolo a cui ho assistito queste registrazioni impallidiscono un po’. Se si pensa che risalgono a dieci, venti, trenta, quaranta anni fa, il tutto è ancora più impressionante. Glenn Hughes, non è solo immortale, sembra un novello Benjamin Button, intento a ringiovanire con il passare degli anni. Beato lui. Voi andate a sentirlo prima che ritorni bambino, mi raccomando.
Luca Di Maio
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