I God is An Astronaut sono riusciti nell’impresa che solo Steven Wilson aveva finora compiuto: farmi scrivere due articoli nello stesso anno, anzi nello spazio di quattro mesi. Dopo la violenza emotiva di Ghost Tape #10, arriva il live in studio del loro seminale secondo album All is Violent, All is Birght e… sono riusciti a stupirmi!
Mi sorprendo da solo in quanto solitamente detesto i gruppi che suonano vecchi dischi interi dal vivo, e non ho mai trovato una nuova registrazione di un classico del passato che avesse qualcosa di vero da dire. Bene, qua siamo su un altro livello.
L’album uscito nel 2005 è il primo vero lavoro dei God is An Astronaut come li conosciamo. Il debutto con The End of the Beginning li vedeva ancora molto legati a quella che loro chiamano “scena dance”, ma che in realtà è un trip hop più ritmato con tendenze rock sempre strozzate. Si tratta di un lavoro interessante, con alcuni pezzi che spiccano il volo proprio dal vivo, ma che è stato principalmente propedeutico per quanto successo nei vent’anni successivi.
All is Violent, All is Bright è un disco fondamentale per quanto riguarda il Post-Rock degli anni 2000. Riesce a distillare il meglio di quanto insegnato dalla prima ondata degli anni ’90, Bark Psychosis in particolare, fondendolo con i chitarrismi di Mogwai e Explosions in the Sky. Lo studio è un strumento musicale al pari di quelli classicamente rock, ma allo stesso tempo non si perde la concretezza della musica pesante. I suoni sono rarefatti, ma persistenti, le chitarre sfuggono per poi ripresentarsi incisive come non mai, la batteria riesce a essere contemporaneamente pesante e leggera. Tutto è violento, ma tutto è anche splendente.
Più splendente che violento. Fino a oggi.
Il live in studio registrato lo scorso Gennaio rappresenta il perfetto aggiornamento al 2021 del capolavoro di sedici anni fa. Ora tutto è violento, e forse meno splendente. Per quanto ci sia anche un’inevitabile base, gli strumenti elettrici prendono il sopravvento catapultando l’ascoltatore in una sorta di universo parallelo. Fragile continua a essere un crescendo accompagnato da synth e cori, ma il climax si realizza con una spigolosità originariamente smussata dallo strumento studio.
Lo stesso vale sostanzialmente per tutte le canzoni. Forever Lost è quella lasciata maggiormente intatta e familiare, mentre tutto il resto trascina l’ascoltatore sempre più nel profondo di uno Startrekkiano universo dello specchio. L’ultimo minuto della titletrack è quanto di più chitarristicamente intenso io abbia mai avuto il piacere di ascoltare; con l’accompagnamento furioso, ma calcolato di una batteria incessante.
Se il disco originale riusciva a essere contemplativo e catartico, questa versione dal vivo rimane sì catartica, ma la catarsi non si raggiunge più grazie a una pacifica meditazione, piuttosto attraverso un’ordalia di ansia e violenza dall’esito incerto. Purificazione attraverso la sofferenza.
Si tratta indubbiamente di un riflesso del tempo che passa; i gemelli Kinsella si ritrovano sul groppone sedici anni di più che pesano come macigni e un mondo profondamente diverso su ogni fronte. Avrebbe veramente avuto senso riproporre il disco esattamente così come era stato scritto e suonato? Io dico di no e apprezzo infinitamente.
Apprezzo così tanto che non ascolto più l’originale. In particolare i climax sono così intensi che non riesco a tornare indietro. La già citata titletrack, Fireflies and Empty Skies, Suicide by Star e When Everything Dies riescono a farmi raggiungere quella sorta di nirvana musicale a un livello superiore. Sarà che non viviamo in un periodo dove la contemplazione paga, sarà che ho conosciuto i God is An Astronaut solo 4/5 anni fa, sarà che vengo dal mondo del metal; sarà tutto, ma questo disco lo insegnerei a scuola.
Luca Di Maio