Her, uno dei film più significativi sullo spaccato relazionale dell’ultimo decennio.
Il buon Spike Jonze nelle interviste riguardo il film ha spesso dichiarato che fosse curioso e lusingato da come le persone potessero percepire di volta in volta la pellicola. Chi la considerasse malinconica, chi una grande storia di amore, chi un ritratto di solitudine e speranza. Credo ci sia un po’ tutto questo e che per gli over 35 sia un processo emotivo in cui ci si trova, nostro malgrado.
Ci chiediamo quali storie abbiamo vissuto fino al momento in cui siamo adesso, cosa e chi abbiamo lasciato indietro e abbiamo idealizzato, cosa abbiamo realmente sentito e se sia possibile ogni volta vivere qualcosa in più o semplicemente qualcosa di nuovo, diverso.
In Her si parla di amore. Di relazioni. Non sempre le due cose coincidono. Mi sa che lo sappiamo in tanti.
Non sarà una recensione, come mia prassi, ma spunti, appunti. Vi anticipo che su Mangiacassette, il mantra, è scrivere di flusso, per cui troverete la mia scrittura piena di strutture complesse, a tratti farraginose, che ben rispecchiano il modo in cui costruisco il mio pensiero. Premesse di rito fatte, qui, vorrei proporvi un circo di piccole pulci che potrebbero saltarvi da un orecchio all’altro. Forse parlare di certi argomenti resta un privilegio tra pochi amici stretti, tuttavia mi piace pensare che si possa estendere il confronto a chi ha voglia di mettersi un po’ in ascolto. Che dite? Seguirà anche playlist dedicata.
Theodore. Lui.
Joaquin Phoenix è Theodore. E fa un lavoro bellissimo. Scrive lettere personali per conto di altri. Entra nelle vite di coppie, famiglie, genitori, amanti. Li conosce da un punto di vista privilegiato. Il suo compito è di trascrivere i loro sentimenti meglio di quanto loro stessi potrebbero fare. Theodore in questo è molto bravo. Lo troviamo reduce da una separazione, quella con la moglie Catherine, con cui ha vissuto ed è cresciuto negli anni.
Yeah, you know, sometimes I look at people and make myself try and feel them as more than just a random person walking by. I imagine how deeply they’ve fallen in love, or how much heartbreak they’ve all been through. -Theodore-
L’altra. La paura.
La paura della solitudine. La paura di farsi conoscere davvero. La paura di dover ricominciare. La paura della sofferenza.
You know, I can feel the fear that you carry around and I wish there was… something I could do to help you let go of it because if you could, I don’t think… you’d feel so alone anymore. -Samantha-
Perché non riusciamo più a dire quello che sentiamo a chi ci sta vicino?
Idealizziamo le persone, le mettiamo su un piedistallo oppure le ficchiamo a forza dentro un ideale di progetto e iniziamo a volerle cambiare (tanto poi si aggiusta, alcuni pensano) già dopo poco tempo. Ignorando sempre di più l’originalità di chi abbiamo davanti e spingendola in un quadro a noi familiare oppure opposto al precedente. Theodore lo fa con Catherine: la vuole ritrovare per come era. Succede spesso. Si cresce tanto in due, ma poi i bisogni di uno e dell’altro prendono direzioni che sembrano sempre più rette parallele. Allora la domanda è: ci si ricongiunge con sé, con il vero io allontanandosi dall’altro? Amiamo ancora, ma non siamo più innamorati? Ci basta? Riusciamo ad accettare questi passaggi o ci rendiamo conto che saremmo più felici in una vita dove siamo l’io che nel qui e ora, realmente, siamo?
Molti di noi sono così abituati a una storia già scritta, a un copione, a una convenzione sociale, contrattuale che mettono il dolore nelle tasche, o l’indifferenza e si decide, di andare avanti così, precludendosi la possibilità di una seconda e piena vita. Non tutti sono visionari come Yoko e John, intuitivi come Johnny e June.
Theodore si chiede se quel tipo di amore lì, lo proverà mai più. È come se fosse in un stand by del sistema emozionale. Non è pessimista e disfattista, non è immobilizzato, elabora il suo lutto e si lecca le ferite, cercando di capire.
Un aspetto della pellicola che mi piace enormemente -ed è per questo che mi ci rifletto forse in modo anche troppo soggettivo- è la visione di malinconica e positiva accettazione del dolore. La consapevolezza del sentimento di angoscia e sottile profonda sofferenza che ti fa lacrimare l’anima ma non ti leva dalla finestra su cui affacciarti alla ricerca di un riflesso d’argento tra le nuvole. Non c’è mai odio, c’è a tratti rabbia, passione, amore per l’altro, desiderio di genuina comprensione e pura conoscenza.
Gli altri. La vita.
Siamo liquidi. Bauman lo diceva della modernità, dell’amore e delle nuove generazioni. Saltiamo da una città a un altra, da un posto ad un altro, da un lavoro a una nuova storia. Siamo iper-connessi. Alla rete, sì. Alle persone? Meno. E siamo in grado di usare la rete per fare “rete”?
Distanti. D’istanti.
In rete a volte nascono delle profonde amicizie, degli amori. Si entra in contatto con persone che magari non avremmo avuto modo di apprezzare. Risvolto meno nobile, si è diventati tutti più esposti alla superficie e, un po’ come ci si invaghiva degli attori delle serie tv preferite, ci si invaghisce di foto profilo, di un’immagine.
Quindi, da un lato, se prima la rete aiutava i più timidi, i più nerd o appassionati di qualcosa di nicchia a trovare giardini popolati dei propri simili per condividere veri interessi, ora ci troviamo in un contesto liquido, dove ci scivola tutto dalle mani, dagli occhi e dall’anima. Non ci fermiamo, non ci interessa, forse nemmeno possiamo. Molto più comodo apprezzare una foto. Statica. Senza conoscere la voce, i pensieri (sempre che mai ci possano essere dei reali pensieri dietro un selfie con pose anatrine). Ci mettiamo dei like, spesso a caso, spesso per mera cortesia. È questa la “connessione” o sono fantasie unidirezionali? Questa modalità diventa l’unica fuga dal tangibile, fino a sostituirsi in toto all’esperienza fisica: si trova la zona di comfort che permette di relazionarsi solo con chi si vuole, quando si vuole, come si vuole, sulla distanza e nella nostra testa. Il supermercato della vita.
Qui con Samantha e gli OS si fa un balzo in avanti. Ci si innamora di un’entità: non la vediamo, la sentiamo. Man mano sembra conoscerci meglio di chiunque altro e impara a rispondere ai nostri bisogni. Non è una semplice voce. Ci fa aprire, dire cose che ad altri mai confesseremmo. Ci rimette in contatto con aspetti di noi surgelati nel freezer in cantina, quello grosso, che apriamo solo per le grandi occasioni.
Siamo vulnerabili in partenza, non abbiamo bisogno di mettere in atto meccanismi di difesa. Non abbiamo paura e quindi ci lasciamo andare. Non possiamo prevedere.
Lei.
Samantha in alcuni casi potrebbe essere definita una “traghettatrice”. Quella figura che consente un passaggio importante di risanamento e ripristino di un qualcosa che rischiava di andare perso: la capacità di amare e di provare delle grandi emozioni.
The past is just a story we tell ourselves. -Samantha-
Abbiamo paura di essere feriti e cadere in mille pezzi, ma abbiamo anche paura di far soffrire l’altro. Una bella responsabilità sociale. Tuttavia, quando realizziamo che non siamo noi gli artefici della felicità di un individuo e nemmeno l’altro può essere la ragione della nostra felicità, ci possiamo affrancare un minimo. Da grandicelli ci relazioniamo portando sempre dietro il bagaglio del passato, chi alleggerito e consapevole, chi con ancora i panni sporchi arruffati dentro. Allora si generalizza, si fanno i paragoni, si evita tutto o non si seleziona niente. Come se ne esce?
Ascoltando, probabilmente. Aprendo prima gli occhi, poi il cuore e le orecchie.
Samantha a un certo punto, in un giro di boa nella relazione con Theodore, gli spiega che più ama più ne diventa capace, che il “cuore” le si espande. (Lo so, vi vedo chiedervi: ma gli OS hanno un cuore? Boh, dai. Comunque Jonze dice che amano, non sottilizziamo.)
The heart is not like a box that gets filled up; it expands in size the more you love. I’m different from you. This doesn’t make me love you any less. It actually makes me love you more. -Samantha-
Ogni relazione, ogni amore è unico. A volte amare è lasciare l’altro essere felice senza di noi.
Per qualche tempo, da ragazza, pensavo di sbagliarmi. Se ami, devi dimostrare che vuoi quella persona a tutti i costi, mi dicevano. Cazzata. Se ami sei geloso, fai scenate, reclami cose. Cazzata. È possesso, è insicurezza. Ami quando, nonostante la legittima e naturale gelosia, ti superi. Non ti farà piacere, brontolerai anche un po’, ma non limiti la libertà dell’altro. Vero è che, invece, con alcune persone funziona il porre dei divieti, dei paletti che le fanno sentire importanti ed amate. Questa modalità è una possibile dinamica di coppia, che va benissimo quando è condivisa e crea un equilibrio complice tra i due, molto poco quando uno dei due la subisce.
In generale, però credo che più che dei paletti, abbiamo bisogno del sogno, della poesia, della musica, di parole gentili. Di chiudere gli occhi e pensare a quel qualcuno e sperare che quel qualcuno stia pensando a noi. Ma. Abbiamo troppa paura per poterlo confessare, in primis a noi stessi.
Paura magari che non proveremo mai più quello che abbiamo già provato nelle storie precedenti e rinunciamo, ci adattiamo. Ci facciamo bastare qualcosa di mediamente “giusto”. Oppure, spaventati, non approfondiamo qualcosa di molto -forse troppo- toccante e preferiamo fare la volpe con l’uva.
Abbiamo paura di essere travolti, perché restare tiepidamente felici, in asse, costa molto meno. Più emotivamente che economicamente, alla fine.
Sometimes I think I have felt everything I’m ever gonna feel. And from here on out, I’m not gonna feel anything new. Just lesser versions of what I’ve already felt. -Theodore-
Per Theodore, Samantha non è niente di meno della realtà. Lui ama lo spirito, l’entità qualunque essa sia. Quindi, mi chiedo: è più nobile e alto il suo amore, lontano dalla fisicità, oppure è un amore più superficiale perché appunto impalpabile? Domandone, eh.
Possiamo solo dire che finché rimaniamo esseri umani con dei bisogni terreni, l’altro, la sua compagnia, la sua presenza, è parte della vita. Questo però non ci impedisce di innamorarci anche senza toccarci, senza vederci. Possiamo innamorarci dell’essenza, senza sentire le nostre voci. Tuttavia, può bastare inizialmente, ma poi, come in tutte le relazioni, per essere tale si deve introdurre del nuovo e andare man mano a fondo. Si deve progredire e incastrarsi nel reale. Abbiamo bisogno di toccare. Abbiamo bisogno che i sensi che abbiamo disponibili siano presenti per poter dire quanto più completa un’esperienza, una relazione. Se no ci innamoriamo di un’idea. Come innamorarci di Alexa o Siri (quest’ultima peraltro odia palesemente tutti). E Samantha questo lo sa meglio di Theodore. Beh, è più intelligente.
Lei, Catherine. Lei, Amy.
E alla fine ci sono una calzante Rooney Mara come Catherine e un’eccellente Amy Adams come Amy. Quest’ultima, tanto per non lasciarci morire nello sconforto, si fa portavoce della “soluzione” che Jonze ci propone.
Entrambe le donne veicolano il messaggio di come, anche senza motivi esogeni, si possa decidere di scegliere un po’ di serenità restando soli piuttosto che incupirsi in una solitudine a due.
“Una parte di te sarà sempre con me. Sarai sempre mia amica.” Scrive alla fine Theodore a Catherine.
Ci avete mai pensato che spesso quando ci innamoriamo, amiamo anche in parte le persone che sono state con il nostro partner prima di noi? E che in qualche modo gli dobbiamo dire grazie per averlo reso, nel bene e nel male, l’anima di cui ci siamo innamorati?
Catherine è quella donna che occasionalmente è anche la moglie di Theodore. Mentre cresce con lui, man mano si ritrova evoluta, semplicemente diversa, sia da come era prima sia da come lui la desidera e ricorda. Quanto coraggio ci vuole per prendere atto che quel che c’era non è diventato quello che si vorrebbe e che, soprattutto, non fa stare un “granché bene” oggi? Quanto è difficile? Catherine lascia Theodore forse anche per salvare del buono e non distruggere tutto sotto le macerie dell’odio. È lei che si prende la responsabilità del suo dolore, ma anche di quello del compagno. Jonze infatti non la crocifigge, anzi. Fa emergere come lo stesso Theodore riconosca le sue responsabilità. Un amore grande, andato in pezzi, come tanti. Si sarebbe potuto salvare? Ce lo chiediamo sin dall’inizio del film, ma direi che l’ineluttabilità di quell’epilogo mi trova in fondo d’accordo. Lewis Carroll faceva dire ad Alice che non poteva tornare a ieri, perché era già una persona diversa allora rispetto oggi.
Il rapporto a due ci spaventa perché è quello che ci mette in contatto con una parte di noi che deve conciliarsi con l’esterno, l’altro. Quindi. Quando ci si trova in una storia nuova, ricominciamo a metterci in gioco, ma dobbiamo capire se magari non ne siamo più capaci o forse… non lo siamo mai stati?
Amy non soffre meno di Theodore quando lascia il marito. Amy è l’altra faccia della medaglia.
Amy è quella che decide che non può più aderire a un modello di vita e aspettativa che la soffoca, la limita nel senso che non la fa essere ciò che è, come è. Amy sceglie se stessa, saltando nel buio della solitudine, lasciandosi alle spalle un qualcosa in cui non si riconosce più. E promettendosi, tra le lacrime, di cercare la gioia, qualunque essa sia, ovunque si nasconda. Nelle persone, nei cuori, nella meraviglia delle cose belle. Amy è come alcune di noi, dopo la tempesta.
You know what, I can over-think everything and find a million ways to doubt myself. And since Charles left I’ve been really thinking about that part of myself and, I’ve just come to realize that, we’re only here briefly. And while I’m here, I wanna allow myself joy. So fuck it. -Amy-
Vi lascio questa lunga riflessione, oceanica, con una citazione di Albert Camus:
“Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare.”
Sara Capoferri