La realizzazione di una compilation è un’arte sottile. Ci sono tante regole. In primis devi renderti conto che stai usando la poesia di qualcun altro per esprimere come ti senti. È una cosa delicata.

Questa è la citazione da High Fidelity che meglio riassume il mio modo di vivere la musica.

High Fidelity (Alta Fedeltà) è stato prima un libro di Nick Hornby ambientato a Londra nel 1995, poi è diventato un film con John Cusack ambientato a Chicago nel 2000 e infine una serie TV con Zoe Kravitz ambientata a New York nel 2020. È la storia di Rob, proprietario/a di un negozio di dischi, collezionista, malato di musica e in eterna cristi relazionale.

Oggi non voglio però parlare né della trama, né del confronto tra i tre media (anzi, ve lo dico subito: tutti e tre diversamente validi, ma il mio voto va al film di Stephen Frears), bensì voglio parlare di playlist e del loro antenato: le cassette miste.

Il film e il libro raccontano la creazione dei misti esattamente come la ricordo. Non ho vissuto la tediosa ma affascinante fase della creazione a partire dal vinile, però sono cresciuto in piena fase cassette. Ore passate copiando da cassetta a cassetta, poi qualche anno dopo sempre le stesse ore per farlo da CD a cassetta. Una meraviglia.

Pensate che partecipai al mercatino di paese, devo aver avuto massimo dieci anni, e invece di vendere vecchi giocattoli come tutti, mi portai dietro uno stereo a batteria e qualche decina di misti e cassette copiate. Il primo anno fu un successo strepitoso, ne vendetti una montagna nell’incredulità generale.

Non era pirateria. O meglio, lo era, ma era soprattutto un atto d’amore nei confronti della musica. Creare un misto comportava una spesa di tempo non indifferente e prevedeva una grande attenzione per quello che si andava a creare. Riprendendo la citazione in apertura, era di fatto una forma d’arte a sé stante. Da non musicista è l’unico vero mezzo di espressione che ho relativo alla musica: il mio fare musica si materializza appunto con una playlist.

Ecco, il passaggio da cassette a CD non fu così doloroso, in quanto il grado di attenzione necessario era molto simile, mentre il grande stacco si ebbe con l’avvento degli MP3 e i relativi lettori CD. Già, perché con le limitazioni di 60, 90, 74, 80 minuti era effettivamente possibile creare una sorta di opera d’arte. La tracklist la pensavi dall’inizio alla fine, dovevi omogeneizzare pezzi diversi, generi diversi; dare un senso alla narrativa, tenere l’attenzione alta senza essere troppo scontato. Arte appunto. Invece con le playlist, siano esse da MP3 o su Spotify, e lo spazio pressoché illimitato, si tende a creare dei bidoni in cui buttare canzoni alla rinfusa, tendenzialmente accomunate per genere.

Nel secondo episodio della serie TV Rob (questa volta una lei, Zoe Kravitz) ci accompagna attraverso la creazione di una playlist dal tema tanto banale quanto difficile: l’amore. Alzi la mano chi non ha mai creato una cassetta, un CD o una playlist come strumento di corteggiamento? Io ne ho create decine. A partire da una tragica cassetta che faceva perno su Ti Amo di Umberto Tozzi quando avevo undici anni, seguita da altre con Queen, Bryan Adams, il love metal goticone degli HIM e così via. La playlist è la migliore danza di accoppiamento che si possa fare senza dover ballare.

È anche un test. Sempre citando High Fidelity: “La cosa che importa veramente è quello che ti piace, non come sei. Libri, dischi, film, queste cose sono importanti. Chiamami superficiale, ma è la fottuta verità”. Se già ami tutti i pezzi della mia playlist è forse troppo bello per essere vero, e magari anche noioso, se non li conosci ma ti piacciono molto allora ci siamo davvero (dopotutto ci piace evangelizzare), mentre se ti mostri indifferente, beh, avanti la prossima.

Rob/Zoe ci accompagna appunto attraverso questo viaggio. La sua playlist deve essere chiara, ma anche lasciare una sorta di via d’uscita senza risultare troppo diretta; il primo pezzo deve suonare familiare, ma anche sorprendere, il secondo deve continuare sulla stessa linea facendoti pensare “continua ad ascoltare, ci potrebbe essere di più di quello che ti aspetti”, e così via. Fino alla chiusura “l’ultima cosa che ascolteranno e l’unica che si ricorderanno”. Purtroppo Rob parte alla grande, ma chiude con una banalissima Nothing Compares 2U, anche se immagino possa essere colpa delle esigenze televisive.

Io non seguo delle regole precise, mi piace spaziare. Spesso parto piano, magari con qualcosa di piuttosto sconosciuto, ma che ritengo possa essere interessante per catturare l’attenzione. Poi effettivamente nei primi due o tre pezzi devo metterci qualcosa di familiare, altrimenti rischio di perdere l’ascoltatore. E poi si sale. Canzoni famose alternate ad altre sconosciute, i generi per quanto diversi si cerca di farli cambiare con il minimo trauma possibile. È bellissimo quando a un certo punto ti fermi e ti chiedi come hai fatto a passare da del soft rock a della techno senza rendertene conto. Oppure tutto il contrario, contrasti violenti proprio per sottolineare il cambio di genere e mantenere l’attenzione alta. Riguardo la chiusura concordo con Rob se si parla di qualcosa che non supera i sessanta minuti, ma per lunghezze superiori onestamente importa poco perché non verrà mai ascoltata in un’unica sessione. Prediligo comunque qualcosa di soft, una sorta di dolce e deprimente buonanotte.

I bidoni con centinaia di canzoni non fanno percepire nulla di tutto questo. Hanno di certo la loro utilità: la playlist sul Progressive Rock 2000-2019 è la più seguita di MangiaCassette e contiene più di cento pezzi: è perfetta per approfondire un genere. Ma per persone con gusti particolarmente eclettici il formato Cassetta del Mese da ascoltare sequenziata è assolutamente il migliore. Ne salti la metà? Ne salterai la metà, ma tra le altre scoprirai delle gemme che non avresti mai avuto l’occasione di sentire altrimenti.

Tornando a High Fidelity, lo consiglio a tutti gli amanti della musica. Il film e la serie sono molto USA-centrici relativamente ai gusti musicali (questo feticismo assurdo per i Fleetwood Mac ce l’hanno solo gli americani), mentre il libro è un po’ troppo pop; ma consentono tutti di respirare musica, viverla, toccarla e sentirla addosso. Cosa che soprattutto al cinema e in tv non capita tutti i giorni.

Luca Di Maio

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