La popolarità di un gruppo come i Sólstafir si può spiegare solamente con due parole: altissima qualità. Altrimenti è inspiegabile.
Nascono black metal, poi già dal secondo album iniziano a farcire il loro sound delle influenze più disparate, in primis post rock e shoegaze, rimanendo in un limbo di generi che a livello di marketing farebbe impazzire anche il miglior discografico. I pezzi rasentano spesso, e talvolta sorpassano, i dieci minuti e i testi sono per lo più nel nativo islandese. Sono depressi, urlati, straziati e strazianti con atmosfere cupe regolarmente illuminate da abbaglianti raggi di luce.
L’essenza stessa dell’invendibile. Nel 2011 con il loro quarto album Svartir Sandar e il relativo singolo Fjara hanno sbancato. Al settimo posto in classifica in patria, entrano anche in Finlandia, Svezia, Germania e altri paesi. Fjara è considerata tra le 100 migliori canzoni di sempre in Islanda. Fu certo un ammorbidimento del suono, ormai lontanissimo dal black metal degli esordi, ma si tratta sempre di qualcosa molto vicino all’avanguardia musicale.
La loro ultima fatica Endless Twilight of Codependent Love può essere considerato una summa delle loro esperienze con la preziosa aggiunta di svariati passi avanti. Mostra un gruppo che ha una padronanza totale dei propri mezzi e un coraggio illimitato. Non hanno paura di osare in tutti i sensi. Se Or inizia sostanzialmente come un pezzo jazz, troviamo Dionysus che lo fa come un pezzo black metal. Il primo poi si apre in un momento post rock luminosissimo, mentre il secondo passa da una cavalcata quasi maideniana per finire nello shoegaze più sognante.
E questi sono solo i due esempi più estremi. Akkeri e Drýsill tornano indietro a sonorità più sporche, ma sempre “post”, per poi aprirsi al sogno. L’influenza dei Joy Division è talmente evidente che risulta quasi superfluo menzionarla, ma è così appropriata a questi pastiche che sarebbe un delitto non farlo. L’unico pezzo in inglese Her Fall From Grace mostra un lato lo-fi nuovo per gli islandesi, con un cantato veramente angosciato ad accompagnare questa discesa nella follia della protagonista.
Si tratta di un disco più coraggioso rispetto ai due precedenti che, per quanto di pregevole fattura, si erano un po’ troppo adagiati sugli allori di Svartir Sandar senza portare avanti il discorso di progressione cominciato con Masterpiece of Bitterness. Invece Endless Twilight of Codependent Love progredisce inserendo interessanti passaggi jazz, rafforzando le influenze post-punk e mantenendo forti quelle post-rock e shoegaze che li hanno sempre caratterizzati. Allo stesso tempo tira fuori un pochino di carogna in più che nell’universo metal non guasta (quasi) mai.
Per tutte queste ragioni fatico a capacitarmi della notevole popolarità raggiunta dai Sólstafir, notevole sempre all’interno di una nicchia, in quanto io stesso non saprei davvero a chi venderli. L’unica motivazione che trovo, ed è segno del mio inguaribile e mal riposto ottimismo nei confronti del genere umano, è che a volte la qualità trova comunque la strada per arrivare a destinazione. Non importa quanto un’opera d’arte possa essere apparentemente inaccessibile, talvolta la grande coscienza umana riesce ad apprezzarla a prescindere.
Endless Twilight of Codependent Love è un opera d’arte. Per il sottoscritto è uno dei dischi dell’anno. È un viaggio attraverso il purgatorio della vita, cosa che nel 2020 dovremmo conoscere molto bene; è un viaggio attraverso l’oscurità dell’anima. Poco importa che non si capisca una singola parola di quello che cantano; anzi, forse l’effetto emotivo è ancora più forte e lancinante grazie a questa apparente incomunicabilità. Apparente perché le emozioni passano tutte. Forti, potenti, e arrivano dritte dentro.
Luca Di Maio