Non avevo ancora scritto nulla su Star Trek Discovery in quanto non sapevo davvero cosa inventarmi. La prima stagione era stata piuttosto deludente, la stagione meno Trek della storia di Star Trek (e anche di quella non di Star Trek), mentre la seconda mi ha positivamente stupito da subito, addirittura a partire dagli Short Treks. Avevo però paura di dire qualsiasi cosa in quanto il disastro era sempre dietro l’angolo, pronto a colpirmi come una fusione mentale da un altro quadrante. Il disastro però non è arrivato e posso trionfalmente dire che Star Trek è tornato, e lo ha fatto principalmente grazie a lui: il Capitano Christopher Pike.
Il Capitano Pike ha da sempre un posto d’onore nell’universo di Gene Roddenberry in quanto è il primo Capitano della sua lunghissima storia. Il primo episodio pilota The Cage vede lui come protagonista principale, interpretato da Jeffrey Hunter, e il solo Spock come unico rappresentante di quello che sarà il nostro Star Trek. Il pilota viene bocciato, ma non totalmente in quanto ne verrà commissionato un altro, con un certo William Shatner nei panni di James T. Kirk come protagonista, e… tutto il resto è storia.
Pike infatti non poteva essere più diverso da Kirk: riflessivo, tenebroso, pensieroso, con una vita e dei conflitti interni forse difficili da digerire per il pubblico televisivo degli anni ’60. A detta dello stesso Nimoy, Spock ha potuto essere Spock solo grazie all’arrivo del baldanzoso Kirk; probabilmente se fosse stato approvato The Cage i Vulcaniani sarebbero stati emotivi quanto gli umani e magari non ne staremmo nemmeno parlando in questo momento. Pike comparirà nuovamente nella serie classica grazie al riutilizzo della storia di The Cage nel doppio episodio The Managerie. Quello che succede in Star Trek Discovery è appunto ambientato tra gli eventi di The Cage e quelli di The Managerie.
Incontriamo nuovamente i Talosiani e la meravigliosa Vina, e abbiamo addirittura una visione dell’incidente che rovinerà la vita al Capitano. Il tutto è scritto, girato e interpretato con un profondissimo rispetto per il materiale originale. Anson Mount è assolutamente perfetto nel ruolo che fu di Jeffrey Hunter, riesce anche a portare una piccola dose di necessaria ironia. Dopo una stagione di Lorca e altre follie, abbiamo un uomo che incarna alla perfezione i valori di Star Trek, ma allo stesso tempo è tormentato come una persona vera, non è un simulacro come sono sempre stati i nostri amati capitani. L’episodio su Talos IV, con il previously on preso direttamente da The Cage è stato uno dei momenti più belli della storia di Star Trek. La visione del suo futuro, il dilemma e la rapida decisione d’onore sono la definitiva consacrazione del personaggio.
Pike era stato rispolverato anche nei film di J.J. Abrams interpretato dal sempre valido Bruce Greenwood, ma era onestamente un altro personaggio. Aveva il nome, ma non il cuore del Pike di Hunter. Parlando di universi paralleli, pagherei per poter fare un giro in quello in cui il Capitano Kirk non è mai esistito e abbiamo avuto tre (o magari quattro?) stagioni con Pike al comando dell’Enterprise. Sin dal primo momento in cui vidi The Cage come speciale nei cofanetti DVD provai subito una grande simpatia per il Capitano tenebroso.
È lui a tirare le fila di tutto, a contenere gli sbalzi umorali e ormonali di Michael Burnham, l’ottusità della Sezione 31 e la plasticosità di molto dell’equipaggio della Discovery. No dai, sono ingeneroso. In realtà è tutto andato infinitamente meglio rispetto alla prima stagione. Quello che succede ha generalmente più senso e i personaggi sembrano molto più veri. A partire dagli Short Treks fino all’ultima scena è evidente come sia stato tutto pianificato in anticipo e con coerenza e che non ci sono stati cambi in corsa (nessuno riuscirà mai a convincermi che Lorca fosse stato pensato come Mirror Lorca sin dal principio). La grande correzione finale è sporca e un po’ marcia, ma era l’unica cosa possibile per rimediare al disastro della genesi di questa serie.
Sospendiamo l’incredulità e crediamoci. Nessuno ha mai più parlato dello spore drive, della sorellastra umana di Spock e della Discovery in generale. Dimentichiamo poi i Klingon mostruosi (non erano solo pelati, sono stati anche corretti piano piano), dimentichiamo le fusioni mentali a quadranti di distanza, gli ologrammi e tutto il resto, io ci sto. Ci sto perchè questa stagione è riuscita a cogliere il cuore emotivo di Star Trek. Non è arrivata a quello sociologico e psicologico, per quello c’è The Orville, ma emotivamente e idealisticamente Star Trek Discovery è finalmente riuscita a cogliere nel segno. La scena finale tra Michael e Spock (anche lui ha trovato in Ethan Peck un validissimo interprete), durante la quale Michael gli dice di cercare il suo opposto per bilanciarsi, è il miglior omaggio possibile alla Serie Classica e allo storico duo.
Ora Discovery è libera da qualsiasi limitazione. L’equipaggio è 900 anni nel futuro, svariati secoli più avanti di qualsiasi altra serie di Star Trek. Immagino che nella prossima stagione si inventeranno un modo per scambiare Tyler con Georgiou in quanto la seconda dovrà guidare una nuova serie sulla Sezione 31, ma per il resto è garantito che non ci saranno più problemi di coerenza con il canon stabilito. L’augurio è che questa libertà venga sfruttata rimanendo fedeli al cuore di quello che è sempre stato Star Trek; che il rispetto portato in questa seconda stagione grazie ai meravigliosi omaggi venga continuato semplicemente grazie a delle belle storie, vere, sentite, rilevanti e pregne di tutto quello che ha reso Star Trek realmente immortale.
Luca Di Maio