Mi sono messo all’ascolto del nuovo disco degli In Flames I, The Mask aspettandomi qualcosa di simile agli ultimi album: alcune belle canzoni, alternate ad altre dimenticabili, il tutto in un contesto un po’ indietro coi tempi e che comunque difficilmente avrei riascoltato anche dopo poche settimane. Invece già dopo cinque canzoni mi sono trovato a urlare in improbabili messaggi vocali su WhatsApp che eravamo di fronti a un vero e proprio capolavoro.
I, The Mask potrebbe essere il loro miglior disco di sempre (o forse no, e comunque ognuno ha il suo), ma è oggettivamente il migliore da Reroute to Remain. Avviso ai puristi: di death metal ce n’è molto poco, ci sono i ritornelli melodici con le voci filtrate, c’è tanta voce pulita e anche un po’ di elettronica. E’ sicuramente più metalcore primi anni duemila, che death svedese anni ’90.
Il punto è che non siamo di fronte a nulla di rivoluzionario, nulla di molto diverso da quello che ci hanno proposto negli ultimi quindici anni, ma è semplicemente tutto perfetto. La mano di Howard Benson alla produzione è sicuramente fondamentale proprio per la costruzione e l’arrangiamento dei pezzi: riff precisi e mai ridondanti, ritornelli che ti spaccano il cervello, assoli puntualissimi, il tutto assemblato con perizia per ogni singola canzone. Soprattutto gli assoli mi hanno stupito perché negli In Flames non li avevo mai calcolati molto, ma su I, The Mask sono degli strumenti di precisione che vanno a esaltare il pezzo sempre nel momento giusto con una pulizia sonora incredibile.
Non ci sono pezzi deboli, ce ne sono solo di meno esaltanti da un punto di vista soggettivo. La voce di Anders viene tenuta a freno come growl e urla incontrollate: l’urlato c’è, ma è meno sporco, la voce pulita invece è semplicemente perfetta, di gran lunga la sua migliore prestazione di sempre. Vedremo se dal vivo se la farà addosso come al solito o se proverà a cantare davvero.
Battles non mi era dispiaciuto, aveva qualche pezzo davvero notevole, ma nel complesso si perdeva. Probabilmente Benson e il resto del gruppo dovevano ancora capirsi bene, ma è evidentemente servito per arrivare a qualcosa di solido come I, The Mask. Voices spacca tutto in apertura, la titletrack ci riporta brevemente agli anni ’90, Call my Name e I Am Above ci proiettano invece nel futuro. Altri momenti salienti per me sono (This is our) House, la metalcorissima Remember Me e la conclusiva Stay with me, ma avrei potuto elencarle tutte che avrebbe fatto poca differenza.
So bene che suono esaltato come un ragazzino quindicenne che ascolta i Bring Me The Horizon per la prima volta, ma non ci posso far nulla: due settimane dopo il primo ascolto sono ancora qui sempre più carico senza riuscire a smettere di ascoltarlo. Considerando che l’ultimo, e forse l’unico, disco degli In Flames a farmi questo effetto fu proprio Reroute to Remain, penso che valga qualcosa.
Vi lascio con la mia Gran Selezione che include tanto I, The Mask, ma parte dalle urla scalmanate di Mikael Stanne su Behind Space, passa per le controversie di Only For the Weak e Cloud Connected, dall’opprimenza di A Chosen Pessimist, fino al quasi elettro pop di The Truth. Un bel viaggio con una conclusione spettacolare.
Luca Di Maio