Da cinque lustri attendo i nuovi album degli Iron Maiden con una trepidazione tale che al confronto un esame universitario, un matrimonio o un colloquio di lavoro risultano essere gesti quotidiani. E Senjutsu si è fatto attendere davvero tanto. Registrato nella prima metà del 2019, ha dovuto aspettare la conclusione del Legacy of the Best Tour prima, e l’arrivo del maledetto COVID poi. Non se ne poteva più, soprattutto per chi come me era al corrente delle segretissime sessioni in studio a Parigi, ormai risalenti a un’epoca diversa. Sono passati addirittura sei anni da The Book of Souls e il mondo non è più lo stesso. I Maiden invece?
I Maiden, forse più di ogni altra volta, sono sempre gli stessi e contemporaneamente sono diversi. Senjutsu è un disco difficile per certi versi, ma allo stesso tempo già al primo ascolto riesce molto bene a comunicare di quale pasta è fatto. Non voglio rivelare troppo presto il mio giudizio sul disco, ve lo dovrete sudare durante la lettura. Sappiate solo che nelle prossime settimane aggiornerò anche la classifica dei loro album, e ci saranno sicuramente delle sorprese.
Ora un doveroso track by track, circa.
La doppietta in apertura
La titletrack e il secondo singolo Stratego sono la miglior coppia di apertura dai tempi di Moonchild/Infinite Dreams. Così, col botto. Senjutsu se vogliamo è un’opener un po’ anomala, come lo fu If Eternity Should Fail, ma forse anche di più. La batteria militaresca del miglior Nicko dai tempi di Brave New World ricorda volutamente i tamburi giapponesi e ci guida in un viaggio cinematografico assieme a un Bruce Dickinson che si tiene su un registro medio a voce piena. Le potenzialità di questo pezzo dal vivo sono elevatissime. Stratego invece è una classica cavalcata delle loro che poi tanto classica non è. Si tratta del primo di tanti pezzi che mette in mostra uno degli elementi più interessanti di Senjutsu, ovvero la chitarra solista che accompagna la voce sulla linea melodica. Nulla di rivoluzionario, ma su questo e altri pezzi riesce a far risplendere tutto di più. Il ritornello di Stratego è estremamente orecchiabile, e ricorda molto Nemo dei Nightwish nella parte centrale e Total Eclipse of The Heart nell’incipit; citazionismo interessante.
I cinque pezzi centrali
La sezione centrale del disco è quella un po’ più confusa, ma che riserva diverse chicche. Il primo singolo The Writing on The Wall non è la mia “cup of tea”, nel senso che con questi climi southern faccio un po’ fatica, ma mi sembra un quasi-esperimento interessante. L’assolo di Smith è uno dei suoi migliori di sempre. Un Bruce meno tirato e il ritornello ripetuto qualche volta in meno gli avrebbero giovato. Lost in A Lost World è il primo di quattro pezzi scritti da Steve Harris in solitaria e ci riporta un po’ alla splendida seconda metà del bistrattatissimo The Final Frontier; gli Iron Maiden provano a fare il prog, ma alla fine sono gli Iron Maiden. Il risultato è assolutamente godibile e su un disco diverso poteva anche essere un momento saliente.
Days of Future Past è l’altro pezzo dopo Stratego che negli anni ottanta sarebbe stato un singolo esagerato. Riffone maschio di Smith e Bruce che ci delizia con le melodie più orecchiabili degli ultimi anni. Il pezzo non sfigura affatto di fianco a una Rainmaker o a una Different World riuscendo nell’arduo compito di farci prendere fiato in mezzo a tutto questo mondo cinematografico.
Il secondo contributo di Janick Gers dopo quello fondamentale di Stratego è The Time Machine. Anche questa riporta un po’ alla seconda metà di The Final Frontier o a un pezzo come The Legacy. L’anello debole del disco? Forse. Le soluzioni sono un po’ trite e Bruce rimane sempre un po’ troppo in alto. Appare anche un po’ più lunga dei suoi ormai onesti 7 minuti. Su 82 minuti di disco ci sta.
Darkest Hour è invece una power ballad. Una sorta di ibrido tra Out of The Shadows e Coming Home; si apre e si chiude con il suono delle onde, Smith fa la sua magia disegnando splendide melodie solistiche accompagnate da un Dickinson spesso leggermente sommesso. Il ritornello porta una grande carica emotiva e ci prepara per quello che verrà all’acquietarsi delle onde.
Il trittico finale
Non credo di rendermi ancora conto di cosa siano queste tre canzoni. E pensare che sono stato il primo a storcere il naso nel vedere in chiusura tre lunghissimi pezzi firmati solamente da Steve Harris. Considerando che negli ultimi vent’anni aveva ottenuto i risultati migliori concentrandosi su una sola “epic” per disco, e nemmeno sempre a livelli eccelsi, ero un po’ timoroso. Bene, questa volta il nostro ‘Arry ha voluto ricordarci chi è il fondatore degli Iron Maiden, chi con il suo sudore li ha portati dove sono, chi ha inventato l’heavy metal come lo conosciamo, chi ha scritto pezzi del calibro di Phantom of The Opera, Hallowed be thy Name, The Rime of The Acient Mariner, The Clansman, Blood Brothers e tutti gli altri.
Non esagero in alcun modo quando dico che con questo trittico è come se To Tame a Land, Alexander The Great e Seventh Son of a Seventh Son fossero sullo stesso disco. Non esagero affatto.
Quello che normalmente faceva una volta per album, e nemmeno sempre agli stessi livelli, su Senjutsu lo ha fatto tre volte a livelli stellari. Death of the Celts è una sorta di The Clansman senza il ritornello orecchiabile; incalzante, bellica, epica, violenta. Bruce lo accontenta non andando mai sopra le righe, anzi, tirando fuori il suo registro più operistico in un ritornello estremamente cinematografico. The Parchment è forse la mia preferita; uno dei riff portanti è in parte una autocitazione da To Tame a Land e poi al minuto 6.45 succede qualcosa di inspiegabile: la chitarra solista e un possente riff di basso accompagnano un Dickinson quasi sussurrante in un crescendo di due minuti che culmina in un climax da pelle d’oca. E come se non bastasse negli ultimi tre minuti questo mid-tempo si trasforma in una cavalcata delle loro. Ci metterò ancora settimane a capirla davvero. Dulcis in fundo Hell on Earth. Ancora una volta è la melodia intrecciata tra le chitarre soliste e la voce di Bruce a generare l’estasi su un pezzo anche piuttosto anomalo nella struttura e nell’incidere. Il ritornello riesce a essere molto orecchiabile senza venire ripetuto all’infinito, e noi ringraziamo.
La cosa straordinaria di queste tre canzoni è che sono uno stacco completo rispetto a quanto prodotto dai Maiden negli ultimi anni. A parte un paio di intro e outro ridondanti, mi ricordano di più i pezzi epici degli anni ottanta rispetto a una For the Greater Good of God o una The Red and the Black. La già citata Lost in a Lost World era sicuramente più in linea con il passato recente del gruppo, e se fosse stata la sola epic di Harris su Senjutsu non mi sarei sconvolto più di tanto; sarebbe stato tutto molto ordinario. Queste tre canzoni sono molto di più; se dovessero finire per essere il testamento musicale di Steve Harris e degli Iron Maiden ci sarebbe solo da mettersi a piangere di gioia. Non avrei potuto chiedere di meglio e credo nemmeno Harris stesso.
Capolavoro?
Può essere? Nelle prossime settimane vediamo dove lo inserirò nella mia classifica; sicuramente sarà piuttosto in alto. Poi se volessimo proprio cercare dei difetti potremmo parlare di questa curiosa ossessione per gli intro arpeggiati, di un Bruce Dickinson che tende a esagerare, di quel riff ricorrente che sembra tanto il “fratello scemo di Dance of Death” (cit. spettacolare dall’amico barg di Metal Skunk), degli assoli di Gers, dei synth che squittiscono un po’ e magari anche di altro, ma non ne parleremo. Il godimento provocato da Senjutsu, culminato in quelle tre canzoni conclusive quasi senza senso tanto sono incredibili, è talmente elevato da far passare tutti i piccoli difetti in secondo piano. Anzi, a me questi cosiddetti difetti piacciono. Mi ricordano che sto ascoltando gli Iron Maiden. Mi ricordano che gli Iron Maiden possono fare tutto quello che vogliono, soprattutto quando a oltre sessant’anni sono ispirati come dei ragazzini. Perché gli Iron Maiden ti prenderanno… dovunque, chiunque, tu sia.
Luca Di Maio
Ciao Luca! Ho letto attentamente la tua disamina di “Senjutsu”, e volevo farti i complimenti prima di tutto. Si sente che sei davvero un ascoltatore affezionato degli Iron Maiden! Anch’io ormai sono 30 anni che li ascolto (ovvero da quando ne avevo 5!) Per me questo loro ultimo album è davvero bellissimo! Ci ho trovato un sacco di emozioni diverse, ma tutte intensissime, e per me è davvero importante che ancora oggi gli Iron riescano a darmi quelle stesse sensazioni di quando scoprii una “Powerslave”, o una “Alexander the Great”, tanto per fare due nomi a caso. Ho anche apprezzato… Leggi il resto »
Grazie Claudio, mi fa un sacco piacere! E siamo d’accordo anche su “The Parchment”, dopo tanti mesi, è sempre quella che voglio ascoltare! UP THE IRONS e speriamo di “vederci” a Bologna! 🙂