In questo momento storico in cui tutti possono dire la loro, mi ritrovo spiazzata nel leggere centinaia di opinioni tutte uguali. Mi chiedo oltretutto cosa potrei dire di diverso rispetto alla perfetta sintesi già fatta sull’argomento da giornalisti e critici sicuramente più informati e arguti di me. Eppure c’è un sassolino fastidioso che mi punzecchia il piede destro.
Vorrei abbandonare la didascalica enunciazione borghese sul perché e percome Todd Philips abbia scelto quel che ha scelto di fare: dall’interpretazione migliore di un personaggio artisticamente accettato, alla comparazione registica o alla critica del citazionismo. Tutte tematiche interessanti fino al 31 agosto 2019.
Davvero non abbiamo altro di cui parlare? Oppure vogliamo vedere quello che più ci fa comodo allontanandoci da realtà sociali aberranti o “aborranti”. La società oggi arriva fino a un certo punto e poi si ferma: il pensiero, l’indagine, la ricerca dell’ombra e di quello che essa stessa cela. Pensieri come aborti, pensieri aborranti! Voglio concedermi un piccolo sforzo in più e provare a guardare questo Leone d’Oro 2019 con uno sguardo diverso, per cogliere i messaggi nascosti che l’arte tenta (forse inconsciamente) di mostrarci. Non sono così sicura di tessere lodi alla regia e agli attori, la linea sottile che separa l’estetica fine a se stessa dal contenuto oggi è davvero impercettibile e vorrei tentare di distaccarmi da questa visione Nerd dei prodotti cinematografici. Diciamoci la verità, di Tarkovskij, Kubrick, Hitchcock, Fellini, Bergman (e non molti altri), oggi non ce ne sono, e non per incapacità tecnica ma per mancanza di limpidezza, onestà e coscienza di contenuti.
Joker, il burlone, colui che ride. Un antieroe moderno, colui che perde.
Vorrei iniziare da due paradossi facili facili sulla risata di Arthur. Ah sì! Non parlerò di Joker, ma di un uomo e del suo disagio esistenziale.
Fleck sghignazza, sorride alla vita facendo del gran baccano, ride senza ritegno, contenimento. La sua sofferenza psichica, il suo dovere di rispettare gli insegnamenti materni diventano pretesto e mezzo di sopravvivenza. Attraverso la risata patologica Arthur si ripulisce dai suoi dolori, le sue ansie e frustrazioni. Una copertina di Linus da portare con sé come appiglio nel disagio sociale. La sua cura lo fa diventare debole agli occhi della società che lo allontana, schernisce e bullizza percependolo come minaccia. Diviene così carnefice del suo vittimismo, un sintomo di una società superficiale che non coglie le sfumature profonde dell’anima.
“La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi”. Solo della malattia mentale mi chiedo? O anche di un nostro pensiero diverso e critico riguardo l’esistenza e le norme sociali che ci portano a costruire un personaggio all’apparenza felice e innocuo (maschera) ma violento e frustrato dentro (disagio sociale)? È proprio questo che trovo interessante in Joker, questo indagare la natura di un Eroe, un personaggio che è sempre stato intoccabile e maestosamente inafferrabile (così come tutti i personaggi DC o Marvelliani). Todd ci racconta tutto quello che di scomodo c’è da sapere su Arthur (che diverrà Joker) e sulla società di oggi. Siamo saturi dell’invincibilità/immortalità, nonostante la bramiamo modificando le nostre rughe, costruendo profili social(i) egoriferiti escludendo la comunicazione con l’altro e promuovendo una socializzazione narcisistica. Auspichiamo a divenire gli eroi di noi stessi e perdiamo la connessione con l’altro – non sentiamo le richieste di aiuto. Non è successo anche ad Arthur? In tutta la prima parte del film chiede aiuto, assistenza e ascolto, cose che gli vengono continuamente negate. Si origina così in lui distruzione da cui ne deriva il caos: metafora di cambiamento. Dal caos si genera l’ordine delle cose. Ed è ciò che vedo oggi nelle disparate opinioni galleggianti sul web, un caos indisciplinato “del dire la mia” senza mai esporsi fino in fondo, riparati dietro lo schermo freddo di un dispositivo elettronico. L’umanità sta cercando nuovi sistemi valoriali in cui credere e cerca così di distruggere, esattamente come fa Joker con la sua risata, i simboli borghesi che odorano di stantio, divenuti un eco ancestrale di antiche verità non più traducibili nel vivere contemporaneo.
Arthur è solo, incompreso, crea una sua realtà attraverso la quale può comunicare i suoi desideri, le sue paure, la sua essenza. Non è quello che fa ognuno di noi attraverso i social? Quanta solitudine prova l’uomo contemporaneo? Quanto rifugge dalla vita reale fatta di complessità e incontro con l’altro? Internet è il palliativo perfetto: un luogo non luogo dove costruire la propria confort zone di solitudine, uno scudo contro il senso di abbandono attraverso il quale urliamo “ci sono anche io”. Joker ride. In un certo qual modo anche gli utenti social, mettendo cuori e faccine di ogni tipo commentando qualsiasi cosa con superficialità distratta. Paura di esser dimenticati. Paura di non essere ascoltati. I social divengono gli unici testimoni della nostra vita, divulgatori dell’insignificanza sociale. Della sordità umana.
Arthur si ritrova solo, dopo aver ucciso gli unici testimoni della sua esistenza e così inizia il delirio, la distruzione, l’annientamento di tutto quello che suscita in lui discordanza e ansia. La solitudine depaupera i sentimenti e la struttura psichica. Abbiamo bisogno dell’altro, dell’amore, della vicinanza intima delle anime, senza costrutti così come sogna Fleck quando immagina di relazionarsi con la sua vicina di casa. Sogna l’accettazione profonda della diversità, sogna di essere accolto, ascoltato, supportato e riconosciuto nella sua unicità.
Dunque, perché non un film di azione, di scontro tra il bene e il male (Batman dove sei?), un finale di morale e aperto a un sequel? La pellicola è fine a se stessa, uno spaccato di realtà, di dinamiche scomode da accettare che ci tagliano le ali narcisistiche e ci fanno cadere malamente a terra tra la sporcizia del quotidiano. Una indagine nuova, decadente dei miti del passato che vengono smitizzati e resi più umani. Abbiamo bisogno di sentirci vicini a loro, abbiamo bisogno di vedere che le nostre paure e debolezze sono condivise e accettate socialmente, non possiamo più nasconderci dietro le maschere, dietro l’invincibilità, siamo eroi umani, la tecnologia ce lo permette davvero oggi rispetto agli anni ottanta quando era impensabile parlare con Siri. Il cambiamento è in atto nel disordine, nella paura di esser vulnerabili. Ma sta avvenendo qualcosa e il cinema ogni tanto prova a raccontarcelo senza troppi colpi di scena, effetti speciali e illusioni.
Giada Destro
E ora dritti alle altre letture:
Sara Capoferri con Se Ridi Se Piangi
Erika Muscarella con Questa non è una recensione
Luca Di Maio con Joker e l’inutile lotta contro il sistema