Premesse.

Non è una pellicola che mette d’accordo tutti, questa è una certezza.
È una pellicola, però, di cui tutti possono disquisire. Questa è un’altra certezza.

Non sono riuscita a classificarlo come un film violento.
Non riesco ad annoverarlo come pellicola sui disturbi mentali.
Non è fantasy.
Non è “il” capolavoro.

Premessa 1. Cos’è per me.

È una prova di eccellenza attoriale.

È un’immediata immersione in un processo empatico che, però, non può condurre a una reale identificazione. Non è detto, cioè, che si possa entrare in simpatia. Chi dice di essere troppo sensibile per vederlo o di esserne stato così turbato da non dormirci, non credo provi reale empatia, piuttosto una proiezione di autoreferenzialità e necessità di uno strumento di espressione: è quindi più simile all’identificazione con uno dei partecipanti al movimento spontaneo dei clown che al Joker stesso.

Premessa numero 2.

Perché scelgo certi film ed altri no. Nonostante io sia laureata in cinema e tutte cose bla bla, ho sempre adottato un approccio sui generis sia di fruizione sia di scelta delle pellicole. Ho un debole dichiarato, ineluttabile, per le storie umane. Biografie, autobiografie, storie di formazione e trasformazione. Se non ci fosse stato un personaggio forte da indagare, forse (forse), non mi sarei interessata particolarmente a questo film. Però. C’era Joaquin Phoenix e questo è stato determinante. PHOENIX, JOAQUIN. Qui la fenice non ha bisogno di risorgere.

Premessa numero 3.

Non lo considero il film che metterei tra i miei film karmici o da podio, ma l’ho decisamente gradito. Tutto è, tutto fa, tutto regge il personaggio. Che sia Joker o Giovanni poco mi cambia. Parto da qui ed è questo il taglio del mio commento.

Mi soffermerò su tre parole che per me sono state la chiave di lettura del film e che vorrei proporvi. LA SCELTA. LA PERDITA. L’ADEGUAMENTO.

Cos’hai da perdere? La Scelta.

La scelta tra bene e male si sviluppa a partire da questa domanda. Per farti questa domanda però devi avere delle scelte, caro ragazzo.

Che opzioni ha Arthur?

Solitamente ponderiamo le nostre scelte in base alle conseguenze. La tendenza è quella al male minore, al dolore che cerchiamo con tutte le nostre forze, spesso illudendoci, di evitare. Sembra che noi, buffi esseri umani, non siamo stati programmati biologicamente alla ricerca della felicità in quanto tale, dice Umberto Galimberti, ma siamo più istintivamente spinti all’evitarci la sofferenza. Vivere poco felici (o infelici, a ognuno il suo grado di mappazzone emotivo, signori!) costa meno che uscire dalla zona di comfort, interrogarsi e crearsi un vero bene. Quanto la nostra sopravvivenza nello status quo con relativo evitamento dell’incertezza prevale sull’evoluzione, sulla scoperta? Quanto è un effettivo adeguamento a quel che si è realmente oggi? Come se spesso vivere nel e del passato ci ancorasse all’unica vita possibile.

Così il nostro Arthur prosegue la sua direzione, la sua volontà/missione di far ridere la gente facendo il clown. Arthur ha un tipo di intelligenza “sociale” limitata dal disturbo psichiatrico (neurologico?) che lo fa aderire ad un piano “A” costruito dalla sua mamma. Non c’è nemmeno un piano “B”. Per Arthur ubbidire alla mamma è il piano che coincide con il suo benessere.

Tuttavia, cosa succede se la sofferenza dirompe, inaspettata, e stravolge tutto? Dove “A” e “B” non si sa più cosa siano, se ci siano. Allora, cosa c’è davvero da perdere? Non esiste più nulla. E se tutta la tua esistenza si fosse basata sulla verità del piano “A” che scopri poi non essere mai stata tale?

La perdita dei punti fermi.

In quasi ogni aspetto della nostra vita noi ci comportiamo divisi tra impulsi e funzioni fisiologiche (come respirare) e la società. Divisi tra istinti dell’individuo ed empatia verso l’altro. Finché gli eventi decidono per noi e impattano totalmente nelle nostre giornate. “Everyone’s gotta a plan until he’s got punched in the face”. Diceva Tyson, o se preferite anche il pacificissimo John Lennon: “Life is what happens to you while you’re busy making other plans.” Così, la tua vita che leggevi come una tragedia, scopri essere stata una commedia. E la tua vocazione di clown non è stata che una conseguenza, contingente e indotta.

La perdita di identità. ARTHUR è JOKER, JOKER non è ARTHUR.

Joker ha un percorso unico e soggettivo. È una vittima ma non è “vittima”. Mi spiego: è più una creatura forgiata da un contesto sociale disgraziato e da quel che Freud avrebbe chiamato complesso edipico, ma tradito.

La costruzione di un altro sé. La rilettura della propria vita. Morte e rinascita di una persona in favore di un personaggio. Questo è quello che succede ad Arthur che fa il clown e Arthur che diventa il Joker.

Il personaggio che ti salva. L’alter ego che diventa il nuovo e più vero te (vero in quanto aderente all’oggi non necessariamente all’anima). Il tuo essere adesso darwinianamente adattato al tessuto sociale in cui si va a inserire, una volta spogliato dai panni di una vita che non c’è più.

Uno dei punti salienti del film è la mancanza di ascolto. L’incapacità o la non volontà di capire cosa ci sta dicendo o chiedendo l’altro e invece l’anticipare una reazione a qualcosa che supponiamo essere la sua intenzione. Una continua mancata occasione di ascolto e comprensione che si ripete in qualsiasi contesto. Ad Arthur succede al lavoro, coi colleghi, con le donne, la madre, mister Wayne, il presentatore tv. È un susseguirsi di non capacità di lettura.

Gli unici personaggi che riescono a mettersi in contatto con Arthur sono il nano, la ragazza e l’addetto all’archivio. Gli unici che mostrano apertura, sospensione di giudizio o umana comprensione. Empatia. Fino a che Arthur non fa trasparire il Joker in nuce. E lì non va più bene.

L’ADEGUAMENTO.

La danza di Arthur. La trasformazione. La risata esasperata. Il sorriso di sottecchi.

Quanti personaggi è Arthur? Quanti personaggi sta interpretando Phoenix ingaggiato apparentemente per un solo ruolo?

Raramente si vede una prova di espressione tale che permette allo spettatore di capire dal corpo, dalla tensione muscolare, il momento drammatico e il pensiero sotteso. In ogni passaggio del film noi sapevamo esattamente cosa stesse provando Arthur. Una prova totalizzante.

Qui non abbiamo davvero scampo. Siamo Arthur. Possiamo aderirci o sentir prevalere la repulsione, ma ragazzi, siamo con lui. Abbiamo solo la sua visione, indossiamo il suo corpo, balliamo la sua danza, ci dimentichiamo le barzellette, prendiamo i cazzotti, tratteniamo quella risata, accidenti, perché non riusciamo a trattenerla? Quanto è fastidiosa quella risata? Eppure. Eppure chi ha disturbi compulsivi non può che trovarsi succube di un corpo che prende il sopravvento, in atti strani e stranianti, che creano disagio. Nello spettatore, nella vita. Nell’ottica di una compulsione, non si tratta di una risata esagerata, esasperata. È proprio questo che accade a una persona affetta da sindromi “apparentemente” socialmente decodificabili, quindi fraintendibili. Perché apparentemente è una risata, no? Un po’ strana, ok, ma risata, no? Oddio, molto strana. Hey, aspetta: adesso è troppo strana. Hey, così non va bene, stai esagerando, è innaturale. Ora mi dai fastidio. Benvenuti nella giornata tipo di un paziente psichiatrico di un centro diurno.

I disturbi di Arthur scopriamo, però, essere non un deficit genetico o natale, bensì provocato. Come tanti disturbi, direte, certo. Su Arthur, però, credo si voglia proprio far passare che no, la sua malattia mentale non ci sarebbe stata. La sua stessa consapevolezza cambia in un attimo la totale lettura della sua vita. Avviene una scissione e sovrapposizione della persona e del personaggio, dove prima il doppelgänger era solo confinato a una professione, non un’identità o un vero e proprio alter ego.

Una mia amica ha usato un’espressione a mio avviso molto ficcante, la malattia mentale qui altro non è che espressione di una malattia sociale. Non esaurirei quindi la rivolta di massa con la lotta di classe, bensì con la richiesta di un ascolto, che prima era di un singolo, dell’individuo Arthur, e che poi diventa condivisa ed estesa a un disagio collettivo che parte però, attenzione, sempre dal singolo. Disagi individuali e soggettivi. Con questo espediente possiamo quindi anche giustificare il personaggio di Joker, forzandolo a calzare i panni del disturbato che di necessità fa virtù. Non è quindi classificabile come un eroe degli oppressi proprio perché mosso da una personale forma di ribellione, adeguamento alla nuova verità.

Se dovessi fare degli accostamenti, Arthur potrebbe essere assimilato al Bill di Douglas di “Un giorno di ordinaria follia”, al Travis (De Niro) di Taxi Driver e, se vogliamo spingerci in qualcosa di più fresco, al Walter White della serie “Breaking Bad”.

Il regista Phillips ci fa vedere solo un paio di passaggi di stato. Da docile clown impiegato, sottomesso, a paladino reattivo della giustizia sociale. In mezzo stanno le lacrime, la rabbia e uno spettro di emozioni che il buon Phoenix percorre tutte e in entrambe le direzioni: da Arthur a Joker, da Joker ad Arthur.

Arthur sta meglio solo quando mette un punto e si fa la “sua” giustizia. Quando reclama la sua fetta di considerazione e umanità.

Epilogo. IL JOKER FA PARLARE.

Mentre scrivevo questo pezzo ho letto le critiche, i commenti e le opinioni. Credo sia uno dei film che ha più aiutato il confronto e il dibattito nell’ultimo periodo. Ci sono state letture diametralmente opposte. Sentimenti contrastanti. Addetti ai lavori che accusavano altri addetti ai lavori di pochezza nel caso avessero elogiato la pellicola. Altri che ritenessero pretestuosi e bastian contrari, forse un filo invidiosi, gli operatori che considerassero questo Joker una robetta.

Perché in molti hanno sentito il bisogno di dire la propria su Joker?

Perché è un film che avvicina tutti. Un film che con l’espediente del mondo DC ha portato in scena temi contemporanei. Ecco che in tanti ci hanno visto la furbata. Un prodotto mediocre, si dice, non particolarmente articolato dal punto di vista né dell’idea, né dello sviluppo, né della direzione cinematografica. Sì, molto bene. Ma anche chissenefrega.

Chissenefrega se per una volta una pellicola riesce a far digitare persone, stimolandole a mettere giù frasi e commenti, a cercare un momento di esposizione che non sia autoreferenziale. Una condivisione social di un qualcosa che possa essere compreso da molti. Un film democratico? Non lo so.

Un film che nella sua presunta mediocrità è andato a colpire e mostrare qualcosa di altro, anche se in modo marginale. Ha posto degli interrogativi, quelli che ci facciamo o che non ci facciamo più. Ha permesso di vederci all’interno di quel film. Rifiutandolo, riconoscendolo. Sinceramente, a memoria, non ricordo di altre pellicole recenti che abbiano avuto la capacità di raccogliere così tante righe.

E se leggiamo pareri che non gradiamo o di cui non ci interessa, c’è lo scroll, sempre sia lodato.

Se ridi, se piangi, le due facce di una medaglia, quella umana. Ve la racconto una barzelletta?

Sara Capoferri

E ora dritti alle altre letture:

Giada Destro con La Solitudine del riso

Erika Muscarella con Questa non è una recensione

Luca Di Maio con Joker e l’inutile lotta contro il sistema

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