Le letture riguardo il sorprendente debutto dei KK’s Priest di K.K. Downing e Tim Ripper Owens sono molteplici, ma partono tutte da un presupposto: spacca il culo.
Sermons of the Sinner rappresenta il ritorno del fondatore dei Judas Priest a più di dieci anni dalla sua fuoriuscita dal gruppo; oltre che il ritorno di Tim Ripper Owens in una produzione di alto profilo dopo anni passati su progetti che godevano di ben poca visibilità. Il confronto con la carriera dei Judas Priest è inevitabile e ci arriviamo subito, partendo dalla legittimità.
Legittimità
Se Bruce Dickinson, Adrian Smith e Nicko McBrain avessero un gruppo, avrebbe senso chiamarlo Iron Maiden? Rispondo io: no. E uno con Steve Harris e Blaze Bayley? Non so, forse sì? Ecco spiegato il concetto. Che poi Steve Harris sia più identificato con gli Iron Maiden, rispetto a K.K. con i Priest, ci sta, e infatti va bene così. Ci sono i Judas Priest (che potrebbero anche chiamarsi Halford’s Priest) e ci sono i KK’s Priest (che potrebbero chiamarsi Judas Priest senza rubare niente a nessuno). Con buona pace per chi critica il nome o l’operazione.
Detto questo, la qualità?
Non siamo al cospetto di un capolavoro, ma ripeto: spacca il culo. E soprattutto, è un disco onesto e genuino senza alcuna traccia di plastica. Non so voi, ma io non ho mai digerito del tutto i Priest post-reunion. A parte Nostradamus, abbiamo tutti dischetti carini, prevedibili, talli, tutti dei mini Defenders of the Faith senz’anima. Nostradamus è stato invece un esperimento interessante che si è scontrato con l’ineluttabile realtà che vede i Priest non essere né gli Iron Maiden, né i Savatage, nel bene e nel male. Ma Pestilence and Plague la ascolto comunque più volentieri di Lightning Strike.
Infatti, anche il tanto osannato Firepower è un bel disco, costruito bene, orecchiabile, carico, metalloso, molto Priest, ma altrettanto vuoto sotto il profilo della carica emotiva. Invece Sermons of the Sinner, per quanto più incasinato, trasuda amore per il metal da ogni suo singolo poro.
E proprio nel suo essere incasinato prende una posizione chiara volendo rappresentare tutto quello che sono stati i Judas Priest a partire dalla fine degli anni Settanta fino a Demolition, con l’esclusione del breve periodo synth. Vi troviamo delle bordate in faccia alla Painkiller, dei momenti rockeggianti e piacioni, dei viaggi metafisici alla Beyond the Realms of Death e della carogna bassa bassa in pieno stile Jugulator. Mentre il gruppo di Halford si è sostanzialmente piazzato in quella zona democristiana del pezzo tirato, ma non troppo, che non esce mai dai suoi binari prestabiliti.
Return of The Sentinel (soprattutto) e Metal Through and Through ci riportano invece agli anni Settanta e alle loro composizioni più elaborate e stratificate, ma suonate come Cathedral Spires. Allo stesso tempo una bomba come Sacerdote Y Diablo fa il giro dall’altra parte stampandosi in faccia con una brutalità impressionate; ricorda anche gli Iced Earth più cazzuti nel suo sovrapporre riff e chitarra solista. Alcuni altri pezzi sono più anonimi, ma spiccano sicuramente anche la titletrack e Hail for the Priest che, rimanendo al confine tra la scheggia e il mid-tempo, mettono in luce un Ripper impressionante.
Appunto, e Ripper?
Ripper spacca, come ha sempre fatto. Nel suo essere considerato il cantante “sfigato” ricorda Blaze Bayley, nonostante vocalmente sia sempre stato molto rispettato al contrario del panciuto inglese (anche lui a torto, comunque). Ripper ha purtroppo sempre avuto l’onore/onere di affrontare delle sostituzioni impossibili quando il gruppo aveva deciso di mutare notevolmente il sound. I Priest si erano un po’ panterizzati su Jugulator (il loro ultimo grande disco, comunque) e completamente sbragati a una modernità che non gli apparteneva con Demolition; gli Iced Earth avevano la filarmonica su The Glorious Burden e un assurdo armamentario tribale su Framing Armageddon. Tutto sempre ricordandoci che Ripper stava sostituendo una delle più grandi icone di sempre da una parte, e il miglior cantante metal della storia dall’altra. E lui il suo lo ha sempre fatto, alla grande.
Su Sermons of The Sinner è sempre lui. Più sporco di come li ricordiamo, ma anche più dinamico. Il suo lato melodico traspare poco perché i pezzi sono generalmente piuttosto violenti, ma le emozioni passano tutte. E la sua estensione è impressionante. I bassi sono bassissimi, gli alti altissimi. Continuo a pensare che 98 Live Meltdown sia uno dei dischi dal vivo più belli di sempre proprio grazie a lui.
Quindi?
Quindi il disco spacca. Ha il Porco D** di cui ho già parlato riguardo l’ultimo album di Blaze Bayley, anzi ne ha di più, per quanto io preferisca il disco del panciuto motivatore. Diciamo che tra tutte le operazioni di sdoppiamento gruppi (Rhapsody e Queensryche vengono alla mente), questa è di gran lunga la migliore. E poi non vedo l’ora di risentire i pezzi di Jugulator dal vivo, oltre alla meravigliosa Diamonds & Rust semi-acustica. Tanta roba.
Luca Di Maio