Avrei scritto questo articolo in ogni caso, ma dopo la sorprendente vittoria dei Maneskin a Sanremo è diventato urgente. Parto con la conclusione: sono davvero contento del risultato e penso che la loro partecipazione, e ancora di più la loro vittoria, sia un bene per lo stato del rock in Italia e della musica in generale. Ma è stata dura arrivare a questa risoluzione e penso che raccontarvi il mio percorso possa essere utile ad apprezzare qualcosa di contro intuitivo.

Le aspettative

Prima di Sanremo conoscevo i Maneskin come “il gruppo rock che aveva quasi vinto X-Factor” (senza averlo mai visto) e per aver sentito un paio di singoli di una banalità estrema; quindi da bravo snob musicale ero pronto a stroncarli senza alcuna pietà. E l’ho fatto. Dopo la prima serata ho scritto qualche commento su Facebook in cui andavo dicendo che “nel 2020 Anastasio e Rancore erano stati molto più rock di loro”, “che i Maneskin erano rock quanto Justin Bieber” e che “il rock non è solo chitarre distorte, batteria pesante e cantato incazzato”.

Due delle tre affermazioni fatte sopra continuo a sostenerle, quella su Justin Bieber era fuori luogo. Però trovo che sia utile spiegarle. È vero, il rock per me NON È SOLO chitarre distorte; il rock è attitudine, ribellione, essere fuori dagli schemi, sputare in faccia all’establishment e tutte queste belle cose. Tanto di questo lo fa anche il rap, e uno come Rancore lo ha sempre fatto estremamente bene, meglio dei Maneskin. Ma il rock è ANCHE chitarre distorte, voce incazzata e riff pesanti; se questi spariscono dai radar il dissenso musicale troverà altri sfoghi, magari meno creativi, come per esempio quella piaga della trap.

I Maneskin ci servono

Quali sono gli ultimi movimenti rock ad avere avuto una risonanza nel mainstream? Il grunge e il britpop spaccarono le classifiche di tutto il mondo con lasciti dal valore inestimabile; poi dopo di loro mi vengono in mente solo il nu-metal e il rock inglese di inizio millennio. Estremamente più piccoli e parliamo comunque di vent’anni fa. Tutti questi movimenti sono stati profondamente osteggiati dai rocker e dai metallari legati al relativo passato. Sulla mia pelle ho vissuto il nu-metal e ricordo bene l’odio che riversavamo nei confronti di questi “sfigati commerciali che mischiano il metal con il rap”; lo stesso successe nei confronti del grunge da parte dell’universo hair metal.

Vent’anni dopo penso che si debba ringraziare il Dio Odino per averci mandato il nu-metal in un periodo di grande crisi creativa del metal classico. Perché in tantissimi partendo da Korn, Slipknot, Limp Bizkit e Linkin Park sono finiti ad ascoltare dell’altro rock rimpinguando le fila dei sessantottini imbolsiti. E un grande numero di vecchi gruppi si è rigenerato grazie a nuovi fan e nuovi rivali da sfidare. Un circolo virtuoso.

I Maneskin servono a questo. Hanno vinto Sanremo in un momento in cui la trap è in fase calante, con alcuni dei suoi esponenti principali già imborghesiti e diretti verso un surreale ruolo cantautoriale; quindi con uno spazio ben aperto. Ci vuole una nuova Zion per catturare il dissenso. E perché non può essere il rock?

Sì, ma sono commerciali

Vero, i Maneskin non vengono fuori come particolarmente autentici. Mi sono riguardato un po’ di vecchi video e gli unici momenti in cui li ho visti realmente autentici sono stati la loro prima audizione a X-Factor, la cover di Amandoti e l’esibizione dopo la vittoria.

La versione di Chosen presentata a X-Factor è una bomba funk/rock spettacolare. Chiaramente derivativa, ma fresca, carica, coinvolgente, e interpretata con una personalità fuori dal comune per dei ragazzi che andavano dai 16 ai 18 anni. Poi la partecipazione, il secondo posto, il contratto con la Sony e la normalizzazione. Non solo normalizzazione: la semplificazione, l’istupidimento. È evidente che le teste pensanti della Sony non hanno alcun coraggio. Singoli come Torna a Casa, L’altra Dimensione e Vent’anni non hanno proprio senso; non puoi prendere un gruppo rock così esplosivo e fargli suonare dei pezzi tra il Sanremese e il Reggaeton.

Poi Sanremo. Zitti e Buoni cresce a ogni ascolto. Nulla di originale, ma è il pezzo più pesante della loro discografia e di tutta la storia del Festival. La loro prestazione è impeccabile e l’arrangiamento notevole; gli archi sono un tocco eccellente. La cover di Amandoti con Agnelli è incredibile. Le uniche critiche che capisco possono arrivare da parte di persone con un particolare legame affettivo con l’originale, ma per chiunque altro bisognerebbe solo stare zitti e prendere nota. Drammatica, ben suonata, cantata con totale partecipazione. L’unica nota stonata è la conclusione: dopo l’ultimo verso quella caciara non serviva proprio.

Era dai tempi di Ruggeri e Mistero che non mi trovavo d’accordo con la scelta del vincitore di Sanremo, e avevo dieci anni. Non voglio addentrarmi in un’analisi degli altri partecipanti perché sarebbe un altro articolo che non scriverò, ma mi limito a dire che questo è di gran lunga il peggior Sanremo che io ricordi. A parte i Maneskin non salvo niente. Fulminacci forse? Qualche cover sicuramente. Ma le canzoni in gara erano imbarazzanti. Quel cantato cantilenante, quell’autotune onnipresente. Spero tanto che questa moda finisca presto.

Quindi i Maneskin saranno i salvatori del rock?

No. Mi aspetto che il prossimo disco sarà solo leggermente più rock del precedente. Dubito che il management avrà il coraggio di lanciarli come dei novelli Guns N’ Roses all’amatriciana. Sbagliando, perché è evidente che funzionerebbero, ma va bene così perché a Sanremo hanno seminato. Il punto non sono loro, anche se sarei estremamente contento di sentirli a briglie sciolte; il punto è la musica.

A partire da oggi i quindicenni non avranno da imitare solo Guè Pequeno, Sfera Ebbasta e tutta quella marmaglia; avranno anche i Maneskin. Sapranno che esistono dei meravigliosi strumenti chiamati chitarre e che è possibile suonarci della musica spettacolare, incazzata e violenta. E che questa musica è capace di catturare la loro rabbia, il loro odio e il loro dissenso molto meglio di qualsiasi altra. Il rock deve tornare a essere quello che diceva Trent Reznor: “Il rock non potrà mai comunicare sicurezza. È un’arte che necessita di terrore, mistero e sovversione. Perciò le vecchie generazioni la odiano”.

Luca Di Maio

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