Tra poetica e non detti, gli Academy Awards mettono in luce il bisogno dell’essenziale e di spiegare “l’altro” ad altri, forse, incomprensibile.

All that is gold does not glitter;

Not all who wander are lost.

The old that is strong does not wither.

Deep roots are not reached by the frost. 

(Tolkien)

Premessa I.

Nomadland: viaggio e fotografia di Fern, nomade d’America magistralmente interpretata da Frances McNormand, nel suo percorso dopo la perdita del marito e del lavoro fisso. Una micro sinossi in due righe, anche se vista la tipologia del film non c’è gran pericolo di spoiler. Quello che vi propongo sono punti e spunti personali, riflessioni sul perché -dal mio punto di vista- questa pellicola meriti a pieno titolo i premi raccolti e perché sia metafora sovrapponibile al sentire comune e soggettivo del periodo assurdo in cui ci siamo trovati a vivere.

Premessa II.

È un tipo di film che richiede una visione in un momento di pace e apertura, direi accoglienza. Tocca delle corde? Sì, sempre che siate disposti ad “ascoltare” il suono che queste fanno.

Nomadi. Erratici, non erranti.

Da wikipedia. Erratico: che muta di continuo luogo e direzione, vagabondo, randagio. Animali erratici, quelli che durante l’inverno si spostano in cerca di cibo e di condizioni ambientali più favorevoli (diversi dagli animali di passo).
L’errante, sempre da wikipedia, è identificato invece come qualcuno che si sposta senza una meta precisa o senza una direzione. Non è il caso di Fern. Né dei nomadi che ci vuole raccontare Chloé Zhao.

Fern, felce in italiano, foglie selvatiche senza fiori. Ci chiediamo se il nome sia un caso.

La volontà chiarissima della regista è quella di descrivere come la vita dei nomadi contemporanei d’America sia quindi erratica, una scelta vissuta con consapevolezza, rivendicazione e una struttura sociale interna. Un agglomerato spontaneo, come le felci, che hanno un ciclo vitale libero, costante.

Così vediamo unire abilmente, senza strappi o dissonanze, l’interpretazione della McDormand alla messa in schermo della vita verosimile di alcuni nomadi reali.

Sin dalle prime sequenze non sono riuscita a “leggere” la pellicola come una denuncia sociale, un disagio di una vita subita. E durante la visione mi sono chiesta perché. Mi sono risposta che l’ottima sceneggiatura della Zhao e il suo occhio registico mi stavano conducendo esattamente dove si volesse che si guardasse. In attesa di uno svelamento.

L’assenza di confini.

Il film non è racconto puro, è anche una descrizione fotografica.

Nomadland si costruisce infatti sviluppandosi tra la realtà e la storia: senza che ce ne accorgiamo, un’incredibile miscellanea di segmenti documentaristici si alternano in un continuum con protagonista la nostra Fern (una moderna Dante). Già a partire dalla scelta di un cast ibrido fatto da professionisti e nomadi reali che si traccia un confine indistinguibile tra finzione e documentario.

Confini assenti che vediamo riproporsi in più tematiche. Come la peculiarità degli spazi immensi e dei panorami. Le distese desertiche, le rocce, le strade interminabili, i tramonti a perdita d’occhio. La scogliera e la tempesta, la gioia del tumulto.

Il film della Zhao è un elogio dell’essenza.

Delicatezza e tenerezza.

Se dell’America abbiamo la terra, la scenografia, lo stile narrativo e la sceneggiatura lo dobbiamo invece alle origini e al background della Zhao. I non detti, i sotto testi delle relazioni interpersonali sono trattati e descritti con un approccio e una sensibilità orientale.

La regista dirige una McDormand che con un solo sguardo o il modo di increspare un sorriso accarezza rapporti profondi. Non ci sono dialoghi costruiti su grandi quantitativi di parole eppure hai la percezione di pienezza; scambi di un’intensità chirurgica. E a mio parere, non si avverte nemmeno il bisogno di ascoltare lunghi aneddoti, semplicemente “senti” il silenzio di una delicatezza che dice molto di più di tanti discorsi. Si abbracciano emozioni che scorrono pulite da ogni fronzolo sociale e culturale. Nella costruzione narrativa sembra che non ci sia spazio per nessun tipo di sovrastruttura: c’è la qualità della comprensione, il poter stare vicini e il bisogno di ognuno di loro di proseguire in un viaggio che sia non solo su ruote -ma soprattutto interiore- con i propri tempi, ritmi, obiettivi. C’è l’amicizia, la sintonia e una forma d’amore che permettono bivi e scelte differenti per ciascuno. Emerge, però, come sia inevitabile percorrere la strada in un cerchio, tante più volte quanto sia necessario per interrompere un ciclo. Tutti i nomadi hanno delle alternative, delle famiglie, persone che li possano aiutare. Un fattore scatenante li ha portati lì, ma poi la loro rivendicazione di scelta di vita è molto chiara.

Fern vs Dave.

Uroboro, il cerchio che si percorre, il cerchio che si chiude.

L’amicizia sentimentale tra i due mette in risalto il senso del viaggio, ognuno il protagonista in un cerchio unico da seguire. Ogni persona ha un tragitto diverso e mettersi in movimento acquista un valore totalmente soggettivo.

Paradossalmente lo spostarsi fisicamente diventa il modo di restare fermi e trattenere la presenza/assenza di qualcuno o qualcosa dentro di sé.

Non è mai un perdersi.

Se parliamo di paradossi, un paradosso numero due è liberarsi di quasi tutto, ma al tempo stesso aggrapparsi a piccole cose feticcio. Oggetti del passato, il van/casa costruito su misura. E qui ci fa pensare che forse la grande rivendicazione che i nomadi ci chiedono di comprendere sia la loro necessità di vivere una vita su misura, fatta solo di cose che loro ritengono importanti. Non sono asociali, non rifuggono l’altro, non c’è misantropia. C’è il bisogno di essere centrati in una visione unica. Una definizione di essenziale che conduce a un’intima e imperscrutabile essenza.

Il cerchio di Dave si chiude quando il figlio lo cerca per invitarlo a conoscere il nipote. Dave si trova di fronte al suo bivio. E capisce che può fermarsi. Offre a Fern di condividere la scelta e la vita insieme, ma Fern ha un suo alpha e omega. Qui la Zhoe affida tutto a sguardi, inframezzi, montaggi. Non ci sono parole a spiegarci, solo la delicatezza di certi momenti osservati da lontano e in silenzio. Sfiorati.

L’andarsene, per Fern, è restare ancora un po’ tra i vecchi ricordi. Prima della tappa conclusiva e il congedo. E forse, chissà, aprire un nuovo cerchio. Zhao fa respirare aria di possibilità.

Perché si resta perché si va. Il dolore.

La catarsi, il fil rouge viene svelato quasi alla fine, quando si cerca dai racconti raccolti da Fern un sentimento e un bisogno comune. Vagare, muoversi, spostarsi è un percorso di formazione al contrario. Una ricerca di altro da sé. La necessità, dice Fern, di ricordare. Come scritto poco più su, c’è forte la sensazione che alla fine lo scopo sia quella di lasciare andare e che il percorso, lo spostamento sia funzionale al riappropriarsi di un ascolto di sé immediato, dei bisogni minimi, umani.

È il dolore, la perdita che muove queste persone. La perdita fisica di qualcuno di amato e caro che dice Zhao in chiusura, sui titoli, rincontreremo in qualche modo nel nostro cammino.

La musica, una compagna di viaggio riservata.

La colonna sonora di Ludovico Einaudi, voluta fortemente dalla Zhao, è una scelta azzeccatissima abbinata ai paesaggi immensi e ai cieli così ricchi di luci e colori, così come gli inframezzi folk country. Piacevolissima la canzone sui titoli di coda di Cat Clifford, “Drifting away”.

Si dice che non sia la meta, ma il percorso che conti. E voi a che punto del cerchio siete?

See you down the road.

Sara Capoferri

 

 

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