L’imminente uscita di In Cauda Venenum mi ha fatto ripensare alla carriera degli Opeth, alla loro evoluzione, ai loro alti, e ai loro bassi. Volevo inizialmente scrivere la solita monografia nella quale vi racconto la storia del gruppo attraverso tutti i dischi e i vari cambi di formazione, ma l’ho immediatamente trovata di una noia mortale. Così ho cercato un’altra chiave: qual è il disco che meglio sintetizza la loro musica? Esatto, Blackwater Park. E invece no, parliamo di Ghost Reveries.

Non so se sia il loro lavoro migliore, le classifiche mi annoiano: c’è chi si masturba con la chitarra e chi con le graduatorie, oggi invece voglio cercare di essere più concreto. Ho scelto Ghost Reveries perché assieme a Watershed è lo spartiacque tra il Progressive Death Metal delle loro prime due decadi e il Progressive Rock settantiano dell’ultima. A differenza del suo successore annovera la miglior formazione della storia del gruppo, e la più completa commistione dei due generi che li hanno animati fino a oggi.

Martin Lopez è uno dei batteristi più sottovalutati del mondo del metal, non tanto per la tecnica, quanto per le influenze e il tipo di tocco che porta ai gruppi in cui suona. Ghost Reveries è il suo canto del cigno tra potenza e delicatezza, la sua classe manca tantissimo e fortunatamente ci delizia ancora nei Soen. Per Wiberg debutta alla tastiera (in realtà hammond, mellotron, moog e altro armamentario prog) portando con sé tutti gli anni ’70 e la prestazione più ispirata della sua carriera. Il disco del 2005 è anche l’ultimo con Peter Lindgren alla chitarra, ma onestamente poco cambia, anzi, forse Akesson ha portato un pochino di personalità in più, peccato che non compensi assolutamente la dipartita di Lopez.

E poi abbiamo le canzoni. L’incipit è leggendario. “Ghost of Perdition 0:08” è ormai diventato una serie di meme storiche nel mondo del progressive: pochissime note che lasciano presagire un pezzo lento e soffuso, e poi: “GHOST OF!! MOTHER!! LINGERING DEATH!!!. Il growl di Mikael Akerfeldt ti percuote come un martello pneumatico. Nei suoi dieci minuti la canzone non è solo violenza: i cambi sono continui e repentini con parti molto meditate e settantiane, alternate a sezioni tipicamente death metal. Assoli strepitosi, hammond, basso, voce filtrata, growl dall’oltretomba, c’è tutto.

Questa canzone da sola riesce a essere il connubio tra quello che gli Opeth erano e quello che saranno: death metal violento e tecnico fuso a del rock progressivo figlio degli anni settanta. Le influenze settantiane più presenti non sono quelle dei gruppi più conosciuti, quanto quelle di artisti di nicchia. Akerfeldt ha sempre citato Camel e Goblin su tutti, che si sentono costantemente, ma aggiungerei gli ancora più oscuri Nektar, provate a ascoltare la loro Desolation Valley per capire cosa intendo, i Gentle Giant, i Magma e molti altri.

Il tanto decantato Blackwater Park rimane un ottimo disco Progressive Death Metal, un classico di nicchia direi, e assieme a Still Life è tra i migliori in assoluto del loro periodo, ma non incorpora ancora il rock progressivo rimanendo completamente all’interno dell’universo metal. Watershed invece tende a sconfinare molto sul prog, mantenendo qualche pezzo e qualche momento più Death Metal, ma risultando un po’ dispersivo nel suo complesso. I dischi successivi salutano completamente il mondo del metal tornando musicalmente indietro di oltre trent’anni, lasciando però per strada quell’originalità che aveva sempre contraddistinto gli Opeth. Un’originalità figlia di quegli improvvisati cambi di tempo in Orchid; dove si fermava tutto al termine della parte distorta per poi ripartire in pulito totalmente sconnesso da quanto lo procedeva; nella sua ingenuità era anche un po’ il suo bello.

Ghost Reveries appunto, la sintesi degli Opeth che continua con due capolavori da ascoltare il più possibile assieme: The Baying of The Hounds e Beneth the Mire. Sono pezzi sulla falsariga di Ghost Of Perdition, ma vanno anche oltre entrando sempre di più in territori progressivi e psichedelici, anche se sulla prima non manca un bellissimo assolo maideniano e una buonissima dose di growl. Se ancora qualcuno avesse avuto dei dubbi riguardo la direzione stilistica degli Svedesi, Atonement li fuga completamente con la sua psichedelia che riporta addirittura ai Moody Blues; negli anni seguenti ne suoneranno una spettacolare versione estesa dal vivo.

Reverie/Harlequin Forest è forse il connubio definitivo. Il loro primo pezzo con le strofe cantate in pulito, ma con la parte centrale in growl. Ne stravolge la struttura tipica e per la prima volta inizia a dare un senso a una loro canzone complessa senza growl (Damnation lo considero un lavoro a parte, escluso da tutte queste considerazioni). Il disco poi si conclude con due meravigliose ballate e con il “singolo” The Grand Conjuration: per quanto mi riguarda il pezzo meno riuscito del disco. Si apprezza la batteria jazzata, ma le atmosfere sono troppo diverse dal resto dell’album. Presa singolarmente, o dentro Deliverance, sarebbe stata interessante, ma all’interno di Ghost Reveries sfigura un po’.

Vi ho raccontato Ghost Reveries sperando di essere riuscito a renderne anche solo un minimo l’idea. Purtroppo questi Opeth non esistono più, Mikael Akerfeldt non ha nessuna intenzione di ritornare nel mondo del Death Metal, e ha ragione. Ha ragione perché suona quello che gli piace, quello che vorrebbe ascoltare adesso, non quello che tutti i fan del gruppo vorrebbero che suonasse. Trattasi di una cosa molto rara in un’epoca in cui il fan service è d’obbligo su tutti i media, tantissimi gruppi metal ammuffiti sopra la stessa roba trita e ritrita dovrebbero imparare da lui.

Purtroppo però l’altissima integrità artistica dimostrata dal gruppo non è esattamente riflessa nella loro musica da un punto di vista qualitativo e d’ispirazione. Heritage come omaggio agli anni ’70 aveva una sua precisa ragione d’essere, mentre Pale Communion e Sorceress li trovo senza una precisa direzione stilistica e emotiva. Un pezzo semplice come Credence ti spaccava il cuore a metà, il ritornello di Godhead’s Lament era in grado di far piangere e disperare in pochi secondi, mentre negli ultimi due dischi non esiste nessuna emozione di questo tipo, se presenti sono completamente sovrastate dalla tecnica e dalla produzione.

Alla luce dei due pezzi pubblicati a oggi non ripongo grosse speranza in In Cauda Venenum, ma lo ascolterò attentamente e ve ne parlerò, sperando di poter aggiornare la Gran Selezione allegata con tantissime nuove canzoni. Come potrete vedere il cuore è formato da quel periodo strepitoso tra My Arms Yours Hearse e Ghost Reveries, che ho cercato di sintetizzare a parole e che troverete espresso infinitamente meglio ascoltando i dischi e la nostra cassetta.

Luca Di Maio

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