Va bene, lo dico subito: ho sempre trovato The Wall un disco estremamente sopravvalutato. Al di là di alcune, ovvie, grandissime canzoni, mi è sempre sembrato uno degli album meno organici che io abbia mai ascoltato, la voce dissonante di Roger Waters non ne ha mai facilitato l’apprezzamento, e la tanto elogiata narrativa l’ho sempre trovata molto poco efficace.
Questo fino all’uscita dell’ultimo album del gruppo romano RanestRane: una loro reinterpretazione della colonna sonora del film di Alan Parker Pink Floyd – The Wall (che, per chi non lo conoscesse, è una trasposizione cinematografica della storia narrata nell’album sotto forma di rock opera che alterna sequenze filmate a sequenze animate, musicato con una versione riveduta e corretta del disco). Il gruppo è (purtroppo) (poco) noto per la realizzazione di composizioni originali suonate in perfetto sincrono con determinati film d’autore; considero la loro trilogia su 2001 Odissea Nello Spazio uno dei più grandi capolavori musicali del ventunesimo secolo. Potrete capire che nei mesi prima dell’uscita le aspettative su The Wall erano altissime.
Per l’occasione mi sono riguardato il film originale e il Giugno scorso con l’uscita dell’album delle RanestRane ho ripetuto la visione usando l’audio del disco. Ora mi trovo a poter sovrapporre quattro versioni della stessa opera cercando di capirne la sua qualità intrinseca. Quattro perché abbiamo l’album, il film, il disco delle RanestRane e il film con la colonna sonora del gruppo romano. Considerando che siamo a Ottobre potete immaginare quante volte questa cosa sia stata ripetuta.
Erano passati anni dalla mia unica visione del film e non lo ricordavo assolutamente in modo memorabile. Questa volta ne sono rimasto estremamente colpito. Pare che durante la prima a Cannes Spielberg avesse reagito alla conclusione del film con uno stupefatto “Cosa cazzo era quello?”, e che il presidente della Warner Bors avesse ripetuto l’esatta frase a Alan Parker con un rispettoso inchino. Non saprei commentare in maniera più egregia: oggettivamente nessuno aveva mai realizzato nulla di simile.
Le sequenze animate realizzate da Gerald Scarfe sono l’elemento che meglio si sposa con le musiche. Disturbanti, angoscianti, inquietanti; durante The Trial è quasi possibile escludere la fastidiosa dissonanza della voce di Waters tanto è forte l’impatto visivo. La pellicola ha anche il merito di cancellare quasi completamente la disomogeneità del disco. Alcune correzioni alla tracklist, come la controintuitiva rimozione di Hey You, servono a rendere il tutto più organico e a farlo fluire in modo più naturale. Le tracce che al solo ascolto sembrano disconnesse, con l’accompagnamento del video acquistano significato e si trasformano in ponti necessari tra una scena drammatica e l’altra.
Ciliegina sulla torta: aver lasciato Bob Geldof impersonare Pink anche vocalmente ha rimosso un po’ di Roger Waters dalla colonna sonora. Le mi orecchie hanno gradito.
Bene. Ma se ho apprezzato così tanto il film, potrà essere così brutto il disco? No, evidentemente no. L’enorme pregio del film è quello di essere in grado di dare un senso al tutto. Continuo a pensare che The Wall fatichi nel confronto con altri concept album per quanto riguarda l’organicità. Thick as a Brick è un continuo flusso dall’inizio alla fine, così Remember the Future dei Nektar (parlando di anni ’70, uno popolare, l’altro oscuro). Se andiamo su concept più recenti i dischi dei Gazpacho sono un unico viaggio che fluisce ininterrotto, così come la già citata trilogia su 2001 delle RanestRane.
Tuttavia è evidente che The Wall sia stato per certi versi un precursore di tante sonorità poi sviluppate nella decade successiva. Allo stesso tempo ha tenuto in vita il concetto di concept album in un momento in cui il mondo della musica era orientato verso altro; ed è probabilmente riuscito a convincere molti neofiti a esplorare il sottobosco progressive, tanto denigrato a partire dagli anni ottanta.
La narrativa che presenta è coinvolgente e i messaggi sono molteplici, così come i livelli di lettura. Non è chiaramente il mio obiettivo di oggi quello di lanciarmi in un’esegesi dell’opera in quanto specialisti ben più autorevoli di me ne hanno già scritto libri e trattati. Quello che posso aggiungere è che trovo il film necessario a chiudere il cerchio; i testi di Waters sono splendidi presi singolarmente, ma grazie al film è possibile visualizzare un contesto interpretativo e immaginifico difficilmente evocabile con il solo testo.
Ora arriviamo alle RanestRane. Non nascondo la mia delusione quando ho scoperto che non si sarebbe trattato di un lavoro originale, ma “solamente” di una reinterpretazione. Trovo che abbiano una splendida vena creativa e li pensavo un po’ sprecati a fare, banalmente, delle cover.
Non sono cover. O meglio, Comfortably Numb e Another Brick In The Wall PT 2 sono cover, e infatti sono i pezzi peggiori del disco. Non che siano arrangiate o suonate male, anzi, ma rispetto al grandissimo lavoro di reinterpretazione fatto sul resto dell’album trovo che impallidiscano abbastanza.
In una mossa a loro volta controintuitiva hanno reintrodotto Hey You, ma in una versione ridotta a poco più di due minuti sorretta dalla stupefacente inventiva ai synth di Riccardo Romano, ed è strabiliante. The Trial è qui presente nella sua iterazione definitiva; tutta elettrica, pesante, imponente, inquietante e cantata egregiamente. Finalmente abbiamo il climax di The Wall.
Anche il lavoro chitarristico di Massimo Pomo è assolutamente pregevole; certo, comparare qualcuno a Gilmour è sempre un esercizio pericoloso in quanto la dimensione del chitarrista dei Pink Floyd è sempre stata molto più emotiva piuttosto che tecnica, riuscendo sempre a trascendere ogni genere di comparazione. Daniele Pomo alla batteria e Maurizio Meo al basso sono tecnicamente mostruosi e, non me ne vogliano Mason e Waters, non li fanno rimpiangere nemmeno alla lontana.
Quello che più mi ha colpito dell’arrangiamento è un feeling squisitamente settantiano che lo permea dall’inizio alla fine. Musicalmente gli anni settanta sono finiti con l’arrivo del punk e la morte del prog, mentre nel ’79 avevamo già i primi vagiti post punk e wave. The Wall è quindi chiaramente un prodotto degli anni ’80 in quanto sfoggia e anticipa tante sonorità che si svilupperanno negli anni seguenti. Le RanestRane invece lo portano indietro, grazie ancora una volta ai synth di Riccardo Romano e ai virtuosismi degli altri membri, rendendolo più simile ai grandi concept album dell’era prog.
Vedere il film con la colonna sonora della rane è un’esperienza interessante quanto strana. Il clima settantiano iniettato in questa reinterpretazione si riflette sullo schermo riuscendo a smussare alcuni spigoli e ad affilarne altri. La sostituzione delle parti orchestrali con strumenti elettrici accentua il tema della protesta, mentre l’addolcimento delle voci riesce a rendere tenere alcune scene, come quelle del piccolo Pink con la madre, che nella versione originale mantenevano un certo carattere disturbante.
Il percorso che sono riuscito a fare in questi mesi riguardo The Wall è sorprendente. Sono partito da un disco che apprezzavo solo per alcuni pezzi, da un film che non avevo quasi considerato, da parecchi dubbi riguardo una reinterpretazione che mi sarei aspettato diversa, e sono arrivato a ribaltare completamente le mie premesse. Ho rivalutato il disco dei Pink Floyd, ho adorato il film di Alan Parker e apprezzato immensamente l’omaggio pieno di amore delle RanestRane. Consiglio a tutti di fare lo stesso percorso, qualsiasi sia il vostro punto di partenza relativo a The Wall: sicuramente ne uscirete più ricchi.
E ascoltate la trilogia A Space Odyssey su 2001. Monolith, HAL e Starchild. Si merita tutta la popolarità che non ha.
Luca Di Maio