Se mi leggete da un po’ di tempo, sarete sicuramente al corrente del mio amore per Steven Wilson. Personalmente un po’ incrinato dalla difficile separazione tra arte e artista, ma artisticamente inscalfibile. Tuttavia, per il secondo disco consecutivo non riesco a scriverne in modo entusiastico. Closure/Continuation, il grande ritorno dei Porcupine Tree, mi ha lasciato un po’ indifferente, così per bilanciare ho deciso di parlare anche della sua quasi-autobiografia Limited Edition of One; al contrario esaltante, e assolutamente correlata.

Ma chi sono i Porcupine Tree?

A costo di farmi odiare da tutti quelli che pagherebbero milioni per fare ciò che vogliono con le mani di Gavin Harrison, Steven Wilson = Porcupine Tree. Ho già scritto la mia visione, e la ripeto: per tre album era un progetto solista tra il prog e il kraut, per altri tre c’era Christ Maitland alla batteria e galleggiavano su uno splendido art rock a tratti poppeggiante; solo con In Absentia è arrivato Gavin Harrison e i Porcupine Tree sono diventati quella creatura tra il Progressive Metal e il Rock che quasi tutti ricordano. Di Colin Edwin non parlo perché se ne sono dimenticati persino loro, quindi rimane Richard Barbieri; a mio parere l’unico altro elemento ad aver portato qualcosa di unico nel loro sound grazie al suo approccio olistico ai synth. Se al posto di Harrison ci fosse stato Marco Minneman, nulla sarebbe cambiato nella sostanza.

I Porcupine Tree sono stati passivamente uccisi da Wilson nel 2010 dopo il loro peggior disco lanciando di fatto la sua carriera solista. Carriera costellata da dischi eccellenti, sperimentazioni, e vera indipendenza artistica da fan, musicisti ed etichette.

Poi così, dopo un disco pop, elettro, post-punk sperimentale come The Future Bites, Wilson decide di resuscitare il “gruppo” per un nuovo disco e tour. Aveva sempre affermato che non sarebbe tornato indietro e infatti spende parecchie pagine del suo libro per giustificarsi. La narrativa ufficiale è che dal 2011 lui, Harrison e Barbieri hanno sempre suonato assieme e composto pezzi a intermittenza. Alcuni come Harridan risalgono appunto a dieci anni fa, altri sono invece recenti. Ma perché non fare un disco solista? Perché al contrario di tutti gli altri lavori a nome Porcupine Tree, Closure/Continuation pare sia realmente collaborativo, con la maggior parte dei pezzi scritti a quattro o sei mani. Come a giustificare l’appropriazione.

Ma il disco com’è?

È la diretta continuazione dei Porcupine Tree come li avevamo lasciati. È esattamente quello che la maggior parte dei fan stava chiedendo da anni; è rock progressivo con riffing metal, poliritmi e soundscape spaziali. Ed è bello, ma è anche vuoto.

Vuoto è una parola troppo forte. Io adoro Chimera’s Wreck, quello che nella versione standard è l’ultimo pezzo, ma che diventa il quartultimo con le bonus track, e che diventa non so cosa nel mio triplo LP 45 giri. Anche questo è un segno: non siamo di fronte a un disco organizzato e sequenziato come un album; questa è una collezione di canzoni dal posizionamento variabile e irrilevante. Non fluisce, è di fatto un greatest hits di quello che hanno composto in dieci anni.

Chimera’s Wreck è il pezzo più sperimentale del disco, l’unico realmente sperimentale. Il ritornello ipnotico ripetuto allo sfinimento, il break psichedelico con il cantato in falsetto, il basso chitarroso suonato da Wilson. Senza il riffing metal sarebbe stata alla grande su To The Bone.

Per il resto non riesco a connettermi al disco. Magari è un problema mio. Magari sono stato fregato dalle aspettative che ho nei confronti di Steven Wilson, ma io non lo sento un disco sincero. Con questo non voglio dire che sia stato registrato al solo scopo di incassare. Posso immaginare che i ragazzi si siano divertiti a rivangare un po’ il passato, e che farlo da persone più mature sia stato anche più divertente. Ma non sento la magia. Mi sembra quasi tutto lì perché deve essere lì. I cambi di tempo in Of The New Day sono interessanti, ma sono davvero necessari oppure stiamo solo ostentando il nostro mostruoso batterista? Stiamo realmente dicendo qualcosa?

Tutto quello che Steven Wilson ha sempre scritto era solamente al servizio della sua arte, mentre su Closure/Continuation percepisco un fan service, magari inconscio, borderline Star Wars.

OK, e l’autobiografia?

Limited Edition of One è al contrario un libro bellissimo, assolutamente obbligatorio per qualsiasi fan del piccolo genio inglese. Lui stesso ammette di mentire in tante interviste, incluse quelle in cui diceva che non sarebbe mai tornato ai Porcupine Tree, e forse sta mentendo in parte anche su questo libro. E tutta la narrativa attorno a Closure/Continuation sembra appunto proprio una narrativa.

Racconta il suo conflitto interiore rispetto a quello che sarebbe stato percepito come un ritorno al passato, una sorta di resa nei confronti dei suoi fan più tradizionalisti. Giustifica la decisione considerando Closure/Continuation come qualcosa che si identifica con il sound degli ultimi Porcupine Tree, ma che è allo stesso tempo qualcosa di nuovo e diverso.

Per il resto il libro è oro. Non è una vera autobiografia in quanto non troviamo una vera storia dettagliata e lineare; si muove in ordine quasi cronologico, ma racconta episodi specifici sempre con lo scopo di visualizzare dei concetti. Infatti la sua visione della musica e dell’arte coincidono perfettamente con la mia visione di lui, che non prevede Closure/Continuation. Ma allo stesso tempo si confessa ammettendo, come forse tanti artisti dovrebbero fare, una voglia nascosta di arrivare al successo planetario vero; una voglia però da soddisfare il più possibile senza compromettere la propria integrità artistica. Non a caso il paragone che ho sempre fatto è quello con David Bowie, e che lui riprende ripetutamente.

I capitoli più narrativi sono intervallati da altri composti dalle liste più disparate. Dalle canzoni preferite, ai film, le serie TV, cucina vegana, e tanto altro. L’edizione limitata del libro include un volumetto aggiuntivo che riporta le sue conversazioni con il quasi-ghost writer Mick Wall (leggendario giornalista rock che in queste pagine si rivela un eclettico ascoltatore che spazia da Stockhausen, al free jazz e al post punk), oltre che un CD contenente archeologia musicale feticistica della miglior specie. Volete sentire i suoi primi progetti casalinghi amatoriali? Meraviglia allo stato puro.

E poi c’è anche una short story scritta di suo pugno, che sarà la base narrativa per il suo prossimo lavoro solista. La storia è interessante e ben scritta; fatte le dovute proporzioni mi ricorda i grandi classici della short story anglo-americana dell’Ottocento. In un’intervista di qualche giorno fa ha detto che The Harmony Codex, questo il titolo dell’album previsto per il 2023, sarà un ritorno alla sperimentazione più concettuale e meno pop; qualcosa “musicalmente tra Hand.Cannot.Erase e The Future Bites. Un pezzo “intitolato Invisible Tightrope sarà una sorta di mash-up spiritual jazz, progressive rock, musica elettronica, e anche un pizzico di glitchtronica”.

Ecco. Ho già dimenticato Closure/Continuation. Mi godrò il concerto a Milano perché dal vivo sarà tutta un’altra cosa, ma le mie speranze sono riposte in The Harmony Codex. Voglio con tutto il cuore scrivere un articolo di dieci pagine pieno di superlativi intervallati da esclamazioni di godimento. Steven me lo deve.

Luca Di Maio

Con questa occasione ho deciso di aggiornare la mia classifica dei dischi di Steven Wilson e Porcupine Tree. Dove sarà Closure/Continuation?

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