Doveva essere l’estate del ’96, o forse del ’97, ed ero in camper con mio padre, in qualche paesino delle Alpi francesi, quando lui raddrizzò una rotonda.
Era distratto.
E’ che, fra fruscii e sbalzi di volume, stavamo ascoltando la musicassetta di Pulp Fiction. Non la celebre colonna sonora, quella che inizia con “everybody be cool, it’s a robbery”, tutto l’audio del film che avevo registrato con un accrocchio di mangianastri (ah no, scusate, mangiacassette) videoregistratore e cuffiette.
Mi ero, come si suol dire, un po’ incastrato nel film.
Pietro, che sarebbe col tempo diventato il più grande esperto di Quentin Tarantino che conosco, venne a casa mia, una sera di un giorno di scuola, con la cassetta presa a noleggio di questo film, Pulp Fiction. Ne aveva letto in Net.gener@tion, libro-manifesto di Luther Blissett sulla nascente cultura del Web, in cui lo pseudonimo collettivo inneggiava a Quentin Tarantino come a “uno dei profeti del Nuovo Tempo”. Pietro aveva provato a vedere Pulp Fiction al cinema, accompagnato dal padre, ma non l’avevano fatto entrare a causa dell’inspiegabile etichetta VM18 che era stata appioppata, in Italia, al film.
Da quella prima volta di “Ezechiele 25, 17” fra i fruscii della combo lettore-registratore per doppiare il VHS (ma che ne sanno…), ho rivisto Pulp Fiction decine di volte.
Non è più il ritmo quasi quotidiano di quell’estate del ’96 –ritmo che mi permette di citare ancora oggi tutto o quasi il film, ahimè, in Italiano- ma almeno una volta l’anno capita di aver voglia di rivederlo, Pulp Fiction.
Pulp Fiction uscì nel 1994 da questo regista, Quentin Tarantino, che si stava facendo un nome nei dintorni di Hollywood come sceneggiatore e, dopo l’exploit di Reservoir Dogs (Le Iene, ndr), due anni prima, come regista. Ma soprattutto, Tarantino si stava facendo un nome come genio, con le stramberie e le fissazioni del genio ad accompagnare la conoscenza enciclopedica di un geek, così si autodefinisce Tarantino, della Settima Arte.
Come raccontato in un lungo articolo di Vanity Fair di qualche anno fa, già solo il making-of del film potrebbe essere l’oggetto di un gran bel film: Tarantino ad Amsterdam, chiuso in una camera d’albergo, gli occhi spiritati mentre, come un forsennato, passa giorni e notti a scrivere la sceneggiatura a penna, su dei quaderni di scuola. La morte di un coniglio che poi darà il nome al personaggio di Amanda Plummer, Honey Bunny. Samuel Lee Jackson che scarica la sua furious anger e i suoi ormai iconici motherfucker su Tarantino e i suoi produttori esecutivi, Lawrence Bender e Richard Gladstein, colpevoli di aver messo in dubbio che la parte di Jules sarebbe stata sua. Quentin, quasi in ginocchio a supplicare Uma Thurman –allora agli inizi- perché lui voleva lei e solo lei nella parte di Mia Wallace. Harvey Keitel che alza gli occhi dalla sceneggiatura e chiede a Tarantino: “Come diavolo hai fatto a scrivere questo?” Lui che gli risponde: “I watch movies.”
E su tutti questi, lo sguardo sornione di quel maiale di Harvey Weinstein, al telefono con Gladstein: “the first scene is fucking brillant, does it stay this good?”
Chi aveva l’occhio lungo volle essere ad ogni costo della partita: i primi furono Harvey Keitel e Danny DeVito, seguiti da Weinstein e fino a un Bruce Willis reduce dal successo di Die Hard, che di fatto pagò per essere nel film, finendo poi per guadagnarci, visto che ebbe una percentuale sui 213 milioni di dollari di incassi.
Per altri, fu una botta di culo imprevista. Soprattutto per John Travolta, il primo fra gli attori che Tarantino “resusciterà” nel corso della sua carriera, che era ormai ridotto ai sequel di Senti chi parla.
Ma cosa c’era di così “fucking brillant”, in quello che l’allora presidente della Disney (della Disney!) definì “one of the best scripts I have ever read”?
Pulp Fiction è l’intreccio di tre storie di malavita a Los Angeles. Storie scontate, cliché da b-movie che ti sembra di conoscere da sempre. Due “gangster, che fanno cose da gangster”, come andare a recuperare una valigetta misteriosa in casa di quattro sfigatelli che credevano di poter fregare fottere (scusa Jules) il boss. Uno di questi due gangster che porta fuori la moglie del boss –“è solo buona compagnia, non è un appuntamento; non è nessun appuntamento”- e dovrà combattere le avances di questa femme fatale. Il pugile fallito che fotte, questa volta riuscendoci, il boss.
In Pulp Fiction, la trama, anzi, le trame sono solo una scusa, il canovaccio su cui Tarantino ci mostra quanto è bravo a fare Cinema con la C maiuscola –recitazione, fotografia, montaggio- ovvero, come ebbe modo di dire lui stesso, “fare un film da 8.5 milioni di dollari che sembri un film da 25 milioni”. Un canovaccio sporco, di bassa lega, di un’assurdità iper-realista e ironica. E’ la fine del cinema anni ’80, dei suoi dogmi sul cosa si possa e cosa non si possa mostrare in un film, oltre che una rivoluzione copernicana nei dialoghi: in film d’azione “per famiglie” come Beverly Hills Cop, Die Hard o Rambo ci sono decine di morti ma quasi mai sangue. I morti sono degli extra, non sapremo mai quanti storm troopers caduti tenevano famiglia. In Pulp Fiction c’è il sangue, i morti hanno tutti una backstory che Tarantino sa mostrare anche solo con un accenno: “Tu, col frangettone” ha solo una battuta e due inquadrature prima di essere ucciso da Jules ma in quel poco tempo si capisce che lui è l’amico fattone, tirato dentro suo malgrado dal cervellone della banda, Brett. E poi “la droga”: nemico astratto dell’America di Reagan, mostrata in Pulp Fiction nelle sue varie declinazioni, nelle sue varie normalità, pera inclusa.
Niente nudi femminili, niente storia d’amore; massaggi ai piedi, quelli sì. Oltre che sodomia non consensuale, un orologio d’oro passato di generazione in generazione (e di cavità in cavità), e uso costante di no-no words con la N e con la F.
Su tutto, anzi, vero motore di tutto, i dialoghi, ci ricorda Pietro, “così pieni di ironia, di un certo…eran dialoghi cool, non li avevo mai visti in un film prima”. Da “io ti spiezzo in due” a “com’è umano lei”, da “Luke, sono tuo padre” a “l’unica cosa che serviamo è la lingua”, il cinema degli anni ’80 ce lo ricordiamo per punch-lines. In Pulp Fiction ci sono interi dialoghi che meritano di essere ricordati e che possono essere citati -e citati a proposito- su base pressoché quotidiana. Lo scrivo per esperienza personale.
Unica frase ad effetto? “Zed’s dead babe, Zed’s dead”, messa in bocca non per caso a Bruce Willis, la star di Die Hard.
Come non è un caso che sia Travolta a condurre le danze al Jack Rabbit Slim’s o che sia Christopher Walken a consegnare l’orologio d’oro. Tony Manero si è dedicato al crimine organizzato, il Cacciatore è tornato a casa. Plausibile, no? E’ un altro livello su cui Tarantino gioca per dare profondità ai personaggi e che riproporrà spesso nei suoi film seguenti. Basti pensare a Pam Grier o a David Carradine, peraltro citato da Jules in Pulp Fiction.
Un dettaglio, uno dei tanti, che fanno di Pulp Fiction un punto di svolta non solo della storia del cinema ma, a pensarci, della storia dell’intrattenimento in generale: le due ore di Pulp Fiction diventeranno, di lì a pochi anni, come fare binge-watching di tre o quattro episodi di una serie tv, di una di quelle ben fatte, assaporando la profondità dei personaggi, l’intreccio di storie parallele, per cui il protagonista di una storyline è un comprimario in un’altra.
Lungi dall’appannarne la caratura, il fatto che Pulp Fiction non abbia vinto l’oscar come miglior film e non abbia la valutazione più alta di IMDB fra i film usciti nel 1994 contribuisce alla sua leggenda. Quell’anno, il ’94, è forse il più competitivo di quella che in molti descrivono (me compreso) come la decade d’oro del cinema. L’oscar di quell’anno, Forrest Gump, e il film più quotato su IMDb (non solo di quell’anno, in assoluto), Le Ali della Libertà, meritano quei riconoscimenti. Ma quelli son film per tutti, che piacciono a tutti. Pulp Fiction no, non è da tutti. Ci vuole un certo spirito, un certo tipo di cultura, per apprezzarlo. E se ce l’hai, saprai già che non c’è “niente da ridire su[gli] altr[i] due, è roba veramente, veramente buona. Ma questa qui, è una bomba atomica”.
Elmar Loreti