Diciamocela tutta. Woody Allen ha 85 anni e siamo nel bel mezzo di una pandemia. Potrebbe succedere in qualsiasi momento. Per questo ogni volta che scrive qualcosa, che esce un suo film o anche solo che apre bocca, dovremmo ringraziare per l’immenso regalo che stiamo ricevendo. Rifkin’s Festival sta finalmente per uscire nei cinema in Italia e ne ho approcciato la visione con grandissima trepidazione. Sì, perché nulla potrebbe scalfire l’immensa carriera del genio di Brooklyn, ma allo stesso tempo sogno che possa chiuderla con un ultimo grande capolavoro.
Rifkin’s Festival non è l’ultimo grande capolavoro, ma è senza dubbio il suo miglior film dai tempi di Midnight in Paris, ormai dieci anni fa. E soprattutto ha tutte le sembianze di un testamento.
In realtà dovrebbe filmare il suo lavoro successivo a Parigi questa estate, ma non ci sono conferme, e come si diceva nell’incipit, si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. E lui lo sa. Lo sa da sempre e lo sapeva mentre scriveva Rifkin’s Festival; anche se al tempo qualcosa come il COVID era ancora relegato alla fantascienza distopica.
Wallace Shawn interpreta Mort Rifkin (il nome è un omaggio al comico Mort Sahl, grande ispirazione del giovane Allen), ex professore di cinema che sta lavorando al suo primo grandissimo romanzo. “Se non è come Dostoevskij, che senso avrebbe” e quindi passa il tempo a scrivere pagine e strapparle. È l’ennesimo alter ego del regista; ma questa volta, per quanto Shawn sia sempre impeccabile, si fatica a capire perché non l’abbia interpretato lui stesso data l’esigua differenza di età. Mort è sposato con la bellissima Sue (Gina Gershon); addetta stampa di un giovane regista francese che ha accompagnato al San Sebastian Film Festival.
L’intreccio è classicamente Woody, ma non voglio comunque rovinarvi le sorprese. Tuttavia è impossibile non parlare di quello che rende questo film un vero testamento, ovvero le sequenze oniriche. Mort sogna, talvolta a occhi chiusi, altre volte a occhi aperti; e sogna quello che meglio conosce come professore di cinema. Sogna i grandi classici, che casualmente finiscono per essere tutti i film preferiti del regista.
Citizen Kane (Quarto Potere) è il solo film americano omaggiato, e infatti Allen lo considera l’unico a poter rivaleggiare con quelli dei maestri europei. Fellini, Truffaut, Godard, Buñuel e lui, il suo idolo, Ingmar Bergman. Le scene dei loro capolavori sono ricreate con la grande ironia che lo contraddistingue, mentre la mano di Vittorio Storaro alla fotografia è evidente nel rendere il più familiare possibile quel bianco e nero tanto nostalgico. L’omaggio in svedese al meraviglioso Persona è esilarante, mentre la chiosa su Il Settimo Sigillo, con uno strepitoso cameo di Christoph Waltz, sarebbe in grado di chiudere la filmografia del regista alla perfezione.
In pochissimi minuti Woody prova ancora una volta a comunicarci la sua filosofia. Sottolinea l’irrilevanza di una vita che allo stesso tempo DEVE essere vissuta al massimo; lo fa con la sua ironia, lo fa omaggiando quello che ritiene il miglior film della storia, scritto e diretto dal regista che più ha ammirato.
E come per la maggior parte delle sue opere, ci lascia con quel senso di completezza abbinato a un corrispondente vuoto siderale. La completezza viene dall’aver assistito a degli spaccati di vita che potrebbero essere i nostri, e dall’aver assorbito un grandissimo numero di riflessioni filosofiche che il nostro retro cranio processerà con calma. Il vuoto viene dagli stessi elementi, ma ribaltati. Vedere la nostra immagine allo specchio spesso non ci piace, soprattutto quando lo specchio ci mostra quello che non vogliamo vedere; e le riflessioni filosofiche sono spesso dolorose, soprattutto quando cercano di renderci consapevoli della nostra assoluta irrilevanza nel grande schema cosmico.
Grazie Woody, grazie per tutto questo.
Luca Di Maio
P.S. Chiunque fosse interessato ad approfondire le questioni non-cinematografiche legate a Woody Allen, potrebbe cominciare da QUESTO ARTICOLO.