Non ho vissuto gli Slowdive né quando sono nati, il fatto di aver avuto 9 anni quando è uscito Just for a Day immagino abbia inciso, né nel mio periodo più musicalmente formativo di fine anni novanta e inizio duemila in quanto totalmente assorbito dal metal. Li ho recuperati durante l’ultima decade assieme a tutto quello che è stato lo shoegaze, il dreampop, il post rock, e tutto il resto. Per questa ragione il loro ritorno sulle scene non ha un gusto (o retrogusto per alcuni) revivalistico per me; è quasi come si trattasse di un gruppo degli ultimi anni.

Questa mia premessa ha poco a che fare con il loro concerto durante la sempre ottima rassegna romagnola acieloaperto, se non per evidenziare la prospettiva dalla quale scrivo. Si è trattato di un concerto atmosferico, avvolgente e sognante che ha in un certo modo inquadrato il loro sound nei confini tra Souvlaki e i dischi post-reunion. Mi sarei aspettato più muro di suono ogni tanto, ma effettivamente un solo pezzo del primo album ha fatto la differenza; il tutto sostituito egregiamente da una chitarra un pochino più progressiva con momenti quasi pinkfloydiani, anche al di là della cover di Golden Hair di Syd Barret.

Durante le prime quattro canzoni si alzò un vento pazzesco tanto che hanno dovuto fermare il concerto per paura di una vera tempesta. Fortunatamente non è caduta nemmeno una goccia e si è potuto riprendere tutto senza problemi dopo una mezz’ora. Il momento più bello per me rimane Catch the Breeze suonata con un vento fortissimo, teloni che volavano, vestiti che non stavano giù, giochi di luce psichedelici, e talvolta occhi chiusi, ma solo leggermente, in modo da lasciare trasparire gli effetti di luce attraverso le palpebre, e questo senso di trasporto totale, come un galleggiamento verso un’altra dimensione. Quei cinque minuti scarsi hanno da soli rappresentato il senso di questo concerto, il senso di tutti i concerti in realtà.

0 0 votes
Article Rating