Lotus è il disco grazie al quale i Soen riescono definitivamente a scucirsi di dosso l’etichetta di clone dei Tool, puro e semplice. In realtà già con Lykaia l’operazione era praticamente compiuta, ma con Lotus ne siamo completamente sicuri, è inoppugnabile.
Già, perché i loro primi due dischi sono un chiarissimo esempio di polarizzazione dei consensi, anche all’interno del cervello della stessa persona. “Grandissimo disco”, ma “cavolo, il primo pezzo è uguale a Schism”, o “voce esagerata e tecnicamente su un altro pianeta”, ma “quando non sembrano i Tool, sembrano gli Opeth, niente di originale?”, e così via dicendo. In realtà poi si fa comunque fatica a non ascoltarli, ma il punto sull’originalità era difficilmente difendibile.
Dalla gran selezione che presentiamo in cassetta è evidente la loro lenta, ma inesorabile evoluzione. Per quanto ancora molto Tool, già Tellurian segue binari più squisitamente metal rispetto a Cognitive, mentre Lykaia inizia a prendere una strada più rock con gli anni settanta che entrano in modo prepotente nel loro suono. Arrivati a Lotus siamo di fronte a un lavoro sempre più rock progressivo, sempre più essenziale e scritto sempre meglio.
Si potrebbe appunto descrivere con un banale “meno è meglio” in quanto è composto principalmente da pezzi più brevi, con strutture più semplici, ma dannatamente efficaci. Martin Lopez e soci hanno lavorato molto sulla struttura e sulla produzione delle canzoni concentrandosi sull’impatto e sull’essenzialità. Non ci sono assoli ridondanti, riff ripetuti infinite volte o deliri tipicamente progressivi; è tutto molto concreto, diretto e, dirò una parolaccia, orecchiabile.
Il mondo del metal e ancor di più quello del progressive impallidiscono di fronte alla parola “orecchiabile”; tuttavia i Soen sembrano aver imparato al meglio la lezione di Steven Wilson di cui abbiamo ampiamente parlato riguardo al pop. Chiaramente Lotus è tutt’altro che un disco pop, è sempre a cavallo tra il metal e il rock su coordinate progressive, ma la maggior parte dei pezzi è scritta con la consapevolezza di poter sperimentare con strutture più dirette.
Aiuta essere al cospetto di cinque musicisti impressionanti. Il basso di Stefan Stenberg è straripante, trovo il suo stile decisamente più adatto ai Soen rispetto a quello di Steve DiGiorgio, basta sentire le prime due canzoni. Lopez è uno dei batteristi più sottovalutati del mondo progressive, l’unico ex membro degli Opeth che considero vitale al suono del gruppo e la cui mancanza sta causando un vuoto incolmabile da ormai tanti anni. Il nuovo chitarrista Cody Ford non fa rimpiangere nessuno dei sui predecessori grazie ai suoi pulitissimi assoli puntuali, taglienti e melodici, mentre Lars Åhlund crea un tappeto di synth tra il settantiano e il moderno. La voce di Joel Ekelöf è suadente e avvolgente come sempre, su Lotus abbassa ulteriormente il registro tenendo tutti sempre col fiato sospeso.
A livello di canzoni abbiamo una perla dopo l’altra. Opponent comincia dove ci avevano lasciati, Lascivious è la prima escursione più orecchiabile del disco, e anche uno dei pezzi meglio riusciti; Martyrs e Covenant rimangono a cavallo di rock, metal e progressive, con una qualità che ha pochi eguali. La quasi-ballata Lotus ci riporta agli Opeth, ma lo fa con un’emozione rara. Come già detto quello che colpisce di più è la solidità delle canzoni, scritte e prodotte superlativamente.
Mi sento di dire che non c’è nient’altro come i Soen sul mercato. Ci sono gruppi altrettanto validi che sposano la loro stessa filosofia, come per esempio i Leprous, ma hanno fortunatamente un’identità diversa. Dopo svariati anni i Soen hanno finalmente trovato la loro unicità, slegata dai Tool, slegata dagli Opeth. Ne portano le influenze, ma lo fanno come gli Iron Maiden con i Wishbone Ash o gli Opeth stessi con i Nektar: si sentono, ma non vanno a rubare la loro identità. Credetemi, di questi tempi non è poco.
Luca Di Maio