Solo poche settimane fa ho parlato lungamente della carriera del musicista romano Stefano Panunzi; della sua vita e soprattutto dei suoi lavori che riescono brillantemente a danzare sulle sottili linee tra art rock, jazz, ambient e progressive. Con quell’articolo volevo cercare di trasmettere l’immensa rilevanza artistica dei suoi lavori, accostata al suo essere sostanzialmente sconosciuto. Ho quasi romanzato la sua vita paragonandola al film Soul con l’obiettivo di entrare, e farvi entrare, nella sua testa. Non so quanto io possa essere riuscito nel mio intento, così ci riprovo con la recensione del suo nuovissimo lavoro Beyond the Illusion.
Per tutti i dischi scritti e registrati durante il folle 2020 è assolutamente necessario prestare attenzione all’aspetto emotivo. Trovo che sia difficilissimo non farlo in quanto sono solitamente dei torrenti di emozioni, che spesse volte virano tra il malinconico e l’angosciante. Beyond the Illusion non è diverso, anche se penso possa essere interpretato in vari modi.
A partire da Marzo 2020 siamo stati tutti investiti da questa pandemia. I meno fortunati non ci sono più, altri hanno perso i loro cari, altri ancora il lavoro, alcuni forse il futuro. Io per il momento mi considero piuttosto fortunato, pur essendo comunque in sofferenza. Le emozioni trasmesse da Beyond the Illusion sono quelle di una persona che inizialmente si muove tra il disagio e le paure del momento, alternate a quel poco di positivo che riesce a intravedere. Poi più passa il tempo, più la visione si fa grigia e opprimente; fino a quando bisogna ricordarsi di esistere per evitare di scomparire.
Scritto così suona più oscuro di quello che è realmente. I momenti più squisitamente jazz, e il quasi soft funk di I Go Deeper, li vedo come quegli attimi di gioia in cui ci ricordiamo quanto è bello divertirsi con gli amici. Quanto suonare assieme possa essere paragonabile a quelle due chiacchiere al pub, tanto scontate prima e tanto agogniate adesso. Proprio I Go Deeper si trova però schiacciata tra le strumentali Acid Love e Mystical Tree. La prima si propone solamente con tastiere, elettronica e violino; la seconda con basso e tromba a sostituire il violino. Un amore acido appunto, suadente ma anche stridente nel contrasto tra la melodia del violino e la freddezza dei synth. L’albero mistico evoca un paesaggio sonoro opprimente, con l’elettronica quasi a fare il verso alla chitarra; l’ennesima illusione.
Con una visione generale più ottimistica The Awakening poteva essere la conclusione del disco. “I’m at peace again, there will be new life and then you will see me fly”. Invece la chiusura è affidata a ben altri toni. Posta come seconda traccia sembra quasi uno slancio positivo prima di sprofondare nello sconforto. Sconforto comunque non immediato perché The Bitter Taste of Your Smile suona assolutamente intrigante, a dispetto del titolo. Certo che dopo I Go Deeper si va sempre più nel buio. The Bench al momento è la mia composizione preferita: una tromba, una batteria delicatissima, un basso avvolgente e una chitarra tagliente; il tutto su un tappeto tastieristico da lacrime agli occhi. Se devo star male, voglio farlo così.
E poi via via le altre, non voglio nemmeno tediarvi con quelle che in realtà sono le MIE emozioni. Perché nell’interpretare quanto racchiuso in un disco è sempre molto difficile scindere i sentimenti dei musicisti da quelli dall’ascoltatore. In un momento diverso della mia vita avrei scritto sicuramente altro.
Tornando più propriamente all’aspetto musicale, che forse è quello che vi interessa maggiormente, Beyond the Illusion continua la tradizione dei lavori a nome Stefano Panunzi. La base è un art rock delicatissimo arricchito da svariate incursioni nel mondo del jazz; questa volta anche piuttosto tecnico oltre che ambient. Il suo punto di forza maggiore? Aver limitato gli ospiti di alto profilo.
Forse è contro intuitivo, e nel mio articolo monografico non ho fatto altro che tessere le lodi di tutte le stelle che hanno suonato con Panunzi in passato, ma seguitemi. In Beyond the Illusion il nome di più grande risonanza è quello di Gavin Harrison, presente con la sua batteria in un solo pezzo. Poi abbiamo Tim Bowness, anche lui a prestare la voce a una sola canzone. Per il resto troviamo uno stuolo di musicisti impressionanti, ma non altrettanto conosciuti. Così facendo ci accorgiamo di quanto risplenda la classe di Stefano Panunzi.
Già, perché quando hai Mick Karn al basso c’è poco da fare, ti ricordi solo di lui. Senza nulla togliere ai bravissimi bassisti ospiti in quest’album; che nei limiti del non poter raggiungere l’irraggiungibile, fanno un lavoro eccellente. Però aver sgombrato il campo dai grandi nomi ci consente di apprezzare realmente il meraviglioso lavoro compositivo, tastieristico e elettronico di questo eclettico sessantaduenne.
Se pensiamo che I Go Deeper, inizialmente inclusa nel meraviglioso album di Tim Bowness Flowers at the Scene, è stata scritta in parte da lui dobbiamo per forza drizzare le antenne. Nel suo arrangiamento quasi synth-pop Depechmodiano è stato uno dei miei pezzi preferiti di tutto il 2019, mentre nella sua versione jazz/funk sembra quasi un’altra canzone, ma non meno meravigliosa.
Una critica? Puramente personale: Grice Peters fa un po’ rimpiangere alcune delle voci presenti nei vecchi lavori. È un cantante bravissimo, ma mi ricorda eccessivamente un Tim Bowness più ruvido, risultandomi quindi poco personale e meno emotivo del suo connazionale. Su Her la sua interpretazione è comunque eccellente, accompagnata da un suadente Nicola Lori al basso e dalle mani magiche di Panunzi alla tastiera.
Basta. La smetto. Disco meraviglioso, musicalmente di altissimo valore assoluto, prodotto da un artista che dovrebbe avere la possibilità di suonare in tutto il mondo, quando mai si potrà tornare a farlo.
Luca Di Maio
A voi anche la retrospettiva inclusa nella monografia, purtroppo Beyond The Illusion non è ancora disponibile su Spotify, ma in intanto potete gustarvi il suo passato. E poi? E poi magari lo comprate. Gli artisti si supportano così.