“Il mare d’inverno, È un concetto che il pensiero non considera, È poco moderno, È qualcosa che nessuno mai desidera”. Se quello di Ruggeri era un bellissimo affresco di qualcuno in difficoltà nel gestire la malinconia del mare d’inverso, Pages From The Sea di Stefano Panunzi è un bellissimo affresco di qualcuno che il mare d’inverno ce l’ha nell’anima ed è perfettamente in grado di abbandonarsi a quella sua splendida malinconia.
Pagine dal mare infatti. Un concept album non dichiarato che sotto il profilo squisitamente musicale risulta più coerente di tanti dischi che provano a raccontare una storia lineare. Fin dal primo momento si respira a pieni polmoni un’aria di mare; non un mare estivo e festoso, ma quel mare invernale, autunnale, diverso. Anche i pezzi più ritmati riescono al massimo a riportarmi alla saudade di un aperitivo settembrino; quelli che chiudono presto perché comincia ad arrivare il freddo, quelli che portano maggiormente a pensare a quanto abbiamo lasciato, piuttosto che a quanto deve ancora venire.
Tutte le composizioni che includono uno strumento a fiato finiscono per evocarmi la stessa immagine: una signora sulla cinquantina, in spiaggia, con copricostume e cappellino, intenta a ballare freneticamente qualcosa che nella sua testa suona come del jazz degli anni ’20, ma che alle orecchie di tutti gli altri è una di queste canzoni ambient malinconico-romantiche. Una sorta di classico contrasto Sorrentiniano. Mentre altri mi portano sulle deserte spiaggi autunnali: il vento tra i capelli, l’aria tagliente e le nuvole grigie che si confondono con l’acqua. Mi immagino a passeggiare sul bagnasciuga con questo disco nelle orecchie; una malinconia che sale, ma che sa anche di condivisione, e per questo riesce a focalizzare tutto il bello di questi scenari spesso ignorati.
Le coordinate sono sempre un art rock raffinatissimo, molto debitore all’ambient jazz e al rock progressivo moderno. Su Pages From The Sea il riferimento che mi torna alla mente più di frequente è il David Sylvian degli anni Novanta: dolcezza, ricercatezza e malinconia si intrecciano tra tappeti tastieristici, chitarre sognanti e fiati avvolgenti. Se le atmosfere sono simili a quelle dei suoi dischi passati, musicalmente ci sono delle differenze evidenziate dalla totale assenza di archi (splendidi nel precedente Beyond The Illusion), un utilizzo più parsimonioso dei fiati (il flicorno di Mike Applebaum è sempre magico) e una maggiore presenza chitarristica. Giacomo Anselmi è un nome a me totalmente ignoto, ma che impreziosisce due canzoni con dei chitarrismi tendenti al Post-Rock, mentre Robby Aceto e Jakko Jakszyk sono due nomi di maggior peso, anch’essi a fornire un grandissimo apporto melodico-chitarristico.
I musicisti coinvolti sono tutti di primissimo livello, soprattutto se guardo i nomi che non conoscevo prima di sentire il disco. I bassisti riescono sempre a colpirmi molto in quanto nei primi dischi di Panunzi l’ospite di rilievo era il gigantesco Mick Karn, e confrontarsi con lui è sempre difficile, ma devo dire che né Fabio Fraschini, né Fabio Trentini sfigurano affatto. Alla voce troviamo, tra gli altri, due splendide sorprese nel già citato Robby Aceto e in Peter Goddard; molto personali ed emotivi nel trasportarci tra le onde.
L’uso dell’elettronica da parte di Panunzi è sapiente, risplende in particolare su The Sea Woman, pezzo di chiusura che lo vede in solitaria dividersi tra delle dolcissime tastiere, beat lounge, e orchestrazioni oscure. Sarebbe interessante sentire un album suonato nella sua interezza da lui, sulla falsariga di compositori Post-Classici contemporanei come Nils Frahm e Olafur Arnalds.
Infatti come per Beyond The Illusion, Panunzi non si nasconde dietro ospiti di alto profilo, ma guida uno stuolo di musicisti a un livello di popolarità simile o inferiore al suo (con la sola eccezione di Jakko Jakszyk), e li fa letteralmente brillare di luce propria. Il songwriting è raffinatissimo sia quando sostiene le parti di altri lasciando ampia libertà, che quando si abbandona alla marea in simbiosi con la sua tastiera. Pages From The Sea è forse il suo disco più vario sotto il profilo musicale, ma il più coerente sotto quello narrativo. Non è un viaggio, è una passeggiata; anzi, una serie di passeggiate marittime che spesso si fermano, indugiano, e portano l’ascoltatore ad ammirare degli incantevoli affreschi malinconici. Abbandonatevi e lasciatevi cullare anche voi.
Luca Di Maio