A mio modesto parere Steven Wilson è uno dei più grandi artisti degli ultimi vent’anni al di fuori di qualsiasi restrizione di genere. Cercherò quindi di spiegarvi il perché attraverso l’analisi del suo ultimo disco dal vivo Home Invasion: In Concert At The Royal Albert Hall. All’analisi seguirà una rapidissima panoramica sulla sua carriera che vi inviterò ad approfondire fino allo sfinimento in quanto l’eccellenza non può e non deve essere ignorata.
Dopo un suggestivo video introduttivo che fa riflettere sulla percezione della verità, si parte con Nowhere Now e Pariah, entrambe tratte dall’ultimo disco To The Bone. Siamo sul pop più puro. Scordatevi il metal dei Porcupine Tree di ultimo corso e il progressive estremo del primo Wilson solista, qua siamo più simili ai PT di Stupid Dream, ma senza vergognarsi di essere pop. Considerando che la maggior parte dei suoi fan va in giro con magliette di Opeth e King Crimson la scelta è già di per sé decisamente coraggiosa. Su Pariah abbiamo la prima apparizione della meravigliosa cantante israeliana Ninet Tayeb in un duetto che al suo “It will take tiiiiiiime” fa venire sistematicamente la pelle d’oca. E poi l’assolo. Nulla di ultra tecnico, ma per certi versi mi ricorda quello di Robert Fripp su Heroes di David Bowie nella sua perfezione minimalista.
Finito il momento pop ecco Home Invasion, dal suo disco precedente Hand Cannot Erase. Io so esattamente cosa aspettarmi, ma mia moglie no, e appena parte l’attacco fa un clamoroso salto sul divano. In pochi secondi siamo al metal, che poi diventa quasi fusion e poi di nuovo metal. E il concerto è di fatto tutto così: si passa da un pezzo pop che sembra rubato agli Abba, a uno metal alla Opeth, per una ballata rock, e uno quasi indie rock inglese, momenti jazz, momenti trip hop seguiti da un esplosione di metal. Questo è Steven Wilson.
Non importa che la canzone in questione sia del periodo Porcupine Tree, dei suoi album solisti o di altri suoi progetti; è una sorpresa continua anche se le conosci tutte a memoria. I musicisti coinvolti sono di primissimo livello: su tutti il bassista Nick Beggs, sempre mostruoso al Chapman Stick, e il pianista jazz Adam Holzman. Craig Blundell alla batteria non fa assolutamente rimpiangere né Marco Minnemann, né Gavin Harrison. Ninet Tayeb partecipa solo ad alcune canzoni (nei contenuti extra del Blu-Ray la troviamo anche sulla meravigliosa Routine e su Hand Cannot Erase), ma raggiunge l’apice su People Who Eat Darkness, su disco cantata principalmente da Wilson, ma che guadagna tantissimo con la profondità della sua voce. Unico appunto sul nuovo chitarrista Alex Hutchings, che è sicuramente in grado di suonare tutto quello che si è trovato davanti, ma che non trovo trasmetta le stesse emozioni di Guthrie Govan e Dave Kilminster.
Poi si potrebbe andare avanti per ore a descrivere ogni singolo pezzo, ma mi limito ai momenti salienti. Song of I è quella che mi sconvolse di più quando andai a vederlo la scorsa estate a Verona. Senza dubbio il pezzo che apprezzavo di meno di To The Bone in quanto molto scollegato dal resto, dal vivo è riarrangiato massimizzando la vena metal e culmina in un finale esteso claustrofobico e martellante. Wilson e Beggs sono sugli scudi per tutto il pezzo e la tenda olografica rende tutto sensibilmente più ipnotico.
Altri momenti salienti sono i due pezzi più lunghi del disco: Ancestral e Arriving Somewhere But Not Here. La prima è forse la più bella canzone scritta dal Wilson solista, la seconda la più bella mai scritta da Wilson punto. Dal vivo Ancestral punta molto sulla parte emotiva iniziale tirandoti dentro in modo lento e avvolgente, per poi sputarti fuori con violenza durante la lunghissima sezione strumentale finale, con Hutchings che ripropone alla perfezione gli incomprensibili assoli di Guthrie Govan. Alieno. Il pezzo dei Porcupine Tree invece è ipnotico e coinvolgente, le varie sezioni si intersecano l’una con l’altra senza soluzione di continuità e finisce dopo quattordici minuti facendoli sembrare due battiti.
Questo è Steven Wilson. È partito nel 1989 come artista solista sotto il nome Porcupine Tree proponendo del rock progressivo psichedelico sulla scia dei Pink Floyd, ma con pesanti influenze elettroniche; dopo aver arricchito il progetto con dei musicisti stabili è passato ad una sorta di Pop Progressivo, in particolare Stupid Dream è un disco incantevole. Poi entra Gavin Harrison alla batteria e a partire da In Absentia si spostano sul Progressive Metal più tirato. Nel frattempo coltiva il progetto pop elettronico No-Man con Tim Bowness (di fatto partito prima dei Porcupine Tree), quello pop/rock Blackfield con Aviv Geffen e parte la sua vera avventura solista. I Porcupine Tree si sciolgono e nei cinque album solisti successivi troviamo sperimentazioni continue che spaziano dal jazz al metal estremo passando per il pop e tutto quello che c’è in mezzo.
Come se non bastasse Steven è un acclamato produttore che, tra le altre cose, sta remixando i cataloghi di praticamente tutti i gruppi Rock Progressivo anni ’70. Tra gli altri Yes, Gentle Giant, King Crimson, Jethro Tull e tantissimi altri. In particolare ascoltatevi il suo remix di Aqualung e capirete che fino a oggi avete ascoltato un disco infinitamente peggiore, seppur meraviglioso.
L’ultima carta che mi gioco per farvi innamorare di Steve Wilson è la cassetta allegata. Ho compilato un meglio del meglio di tutti i suoi progetti. Includo anche gli Storm Corrosion, il suo progetto con Mikael Akerfeldt degli Opeth, che non mi ha mai convinto ad eccezione del pezzo che ci trovate. Il tutto è eccellenza allo stato puro: da lui che imita Prince, a tempi sincopati con una batteria devastante, fino a delle ballate così strazianti che capirete perché è considerato uno degli artisti più depressi in circolazione.
Meriterebbe semplicemente una fama maggiore di quella che ha. Non solo perché sarebbe giusto, ma anche perché sono convinto che la sua musica potrebbe piacere ad una fetta di pubblico molto più ampia di quella che lo segue adesso, ma che banalmente non lo conosce ancora. Quindi dopo esservi innamorati, spargete la voce anche voi; il mondo ha bisogno di eccellenze.
Luca Di Maio
[AGGIORNAMENTO 03/11/2020: la playlist è stata aggiornata con pezzi da The Future Bites e con un approfondimento sui No-Man e Blackfield]
L’ho scoperto anch’io da poco, ne avevo sentito parlare un po’ qui e la’ ed e’ stata una rivelazione folgorante.To the bone e’ stato casualmente il primo album ascoltato e ha lasciato il segno, con richiami melodici al progressive e al pop rock degli anni 70.Bellissimo il duetto con Ninet Taleb in Pariah.E’ a Milano a Settembre…chissa’ se sara’ possibile vederlo.Ciao e grazie della bella presentazione.
Grazie a te per il commento. Spero che continuerai ad approfondire. Cosa ne pensi del nuovo singolo Personal Shopper? Per Milano ho i biglietti dal giorno zero, però ho come la sensazione che lo vedremo l’anno prossimo…
Non l’ho ancora ascoltato,ti faccio sapere presto.
Al primo ascolto,non mi ha fatto impazzire.Poi riascoltandola l’ho apprezzata,una buona miscellanea di stili,con un’inizio debitore a Sysyphus dei Floyd.Il testo e’ ficcante e critico,rispolvera velatamente orientamenti di consumo alternativo mettendo alla gogna l’attuale societa’ degli iperconsumi.Musicalmente pero’ preferisco il Wilson progressive.
Io ci sento molto Nine Inch Nails (c’è un mashup con Head Like a Hole su YouTube che è perfetto anche nel testo) e in generale il mondo synth-pop recente e wave anni ’80, sicuramente un cambio netto. Non che sia qualcosa che non ha mai esplorato già con i PT all’epoca di Voyage 34, ma sicuramente più maturo. Se devo scegliere onestamente anch’io voto per un Hand Cannot Erasem Raven o anche i PT più prog, ma apprezzo l’eclettismo e sono curioso di sentire l’album. Purtroppo rimandato a Gennaio…
[…] 2020 è stato molto diverso da come Steven Wilson se lo era immaginato. Il nuovo album The Future Bites era in uscita in Giugno, la campagna di […]
[…] vi è giunto il nome all’orecchio sarà sicuramente per il suo ultratrentennale sodalizio con Steven Wilson che prende il nome di No-Man, ma non è assolutamente tutto lì. Tim è un cantante, musicista e […]
[…] Steven Wilson parte proprio da lui. Quando ha iniziato a suonare doveva scegliere se ispirarsi a Robert Fripp (chitarra e anima dei King Crimson) o a Gilmour, dichiarando di aver scelto quest’ultimo perché meno tecnico. La sua falsa modestia colpisce sempre, ma ascoltando la sua musica sin dai primi Porcupine Tree risulta evidente che la vera ragione della scelta sia l’enorme carica emotiva che hanno tutte le sue composizioni. È da sempre un cantore della tristezza. Porta con sé un’infinità di pezzi strappalacrime, anche quelli più pesanti sono permeati da una vena malinconica asfissiante. La chiave di tutto è… Leggi il resto »