[Per la recensione di The Future Bites pubblicata il 2 Febbraio 2021 cliccate qui, per l’analisi dettagliata dei singolo e dell’attività di Steven Wilson nel 2020 continuate a leggere]

[Articolo aggiornato il 5 Gennaio 2021 con le ultime novità prima dell’uscita di The Future Bites]

Il 2020 è stato molto diverso da come Steven Wilson se lo era immaginato. Il nuovo album The Future Bites era in uscita in Giugno, la campagna di promozione stava già partendo e il suo primo tour in grandi arene era programmato per Settembre. Una meraviglia.

Entra in scena il COVID-19 e cambia tutto. Non fa in tempo a promuovere il primo singolo Personal Shopper che l’uscita del disco viene spostata a Gennaio 2021; poco dopo anche il tour viene annullato. Solamente un mese fa è ripartita la promozione di The Future Bites, previsto in uscita il 29 Gennaio a prescindere dalla situazione globale. E quindi di cosa vi parlo?

L’idea è quella di fare il punto sui tre singoli usciti, sulle premesse e sulle aspettative riguardo un disco che dividerà ancor più di quanto aveva fatto il precedente To The Bone. E se ci venisse fuori anche qualche vaga riflessione su arte e artisti non sarebbe male.

Le aspettative

“Song of I da To The Bone è probabilmente la migliore indicazione che posso dare riguardo il punto di partenza per The Future Bites. Un anno fa questa è stata la risposta di Steven Wilson riguardo la direzione del nuovo album.

Song of I è un pezzo anomalo anche per To The Bone stesso in quanto è l’unico a incorporare forti elementi trip hop figli di Portishead e Massive Attack. La canzone appoggia su un tappeto di synth e sulle voci di Wilson e dell’ospite Sophie Hunger. La chitarra quasi non esiste. L’ho sempre considerato il pezzo meno riuscito del disco non tanto per la direzione, quanto per l’esecuzione; piatto, poco incisivo, sembra non partire mai e rimane impresso solo perché abbastanza slegato dal resto del lavoro. Discorso diversissimo dal vivo: arrangiamento pesantissimo e oscuro, diventa una sorta di trip metal hop che decolla devastante nella sua jam finale. Forse il pezzo migliore dell’ultimo tour.

L’altra informazione era ormai un leitmotiv di Wilson, il quale conferma ancora una volta “non voglio mai ripetermi, voglio che ogni disco sia diverso dal precedente. I miei ultimi lavori sono stati quasi degli omaggi a periodi musicali passati, The Future Bites sarà invece la musica di oggi”. Con questi pochi indizi non era difficile intuire la direzione. Ma il risultato?

Non saprei, o meglio, non avrei nemmeno dovuto scrivere questo articolo in quanto io stesso sono un grande sostenitore dell’album come unità indivisibile. Citando Wilson “è come cercare di apprezzare un film guardando alcuni spezzoni di 5 minuti completamente slegati tra loro”. Ma ho voglia di parlarne lo stesso, consapevole che le canzoni prese singolarmente potrebbero avere un effetto completamente diverso da quello che avranno all’interno del disco.

Personal Shopper

12 Marzo 2020, quando ancora si pensava che il lockdown potesse durare solo poche settimane, esce Personal Shopper. Chiunque non avesse letto o sentito le dichiarazioni di cui sopra è rimasto giustamente spiazzato. Un pezzo di dieci minuti costruito su una groovissima linea di basso, su un beat incessante, sul falsetto di Wilson e sul ritornello più orecchiabile della sua discografia. Ah, e anche su Sir Elton John che legge una surreale lista della spesa del superfluo.

È evidente che per alcune persone la discografia di Steven Wilson inizi con In Absentia e finisca con Hand Cannot Erase in quanto non si capacitano della “deriva pop”, “quasi dance” e soprattutto “commerciale” del loro beniamino Progressive Metal. Dimenticandosi totalmente del progetto No-Man con Tim Bowness, di Blackfield con Aviv Geffen, ma anche di Voyage 34 dei primi Porcupine Tree. E in più vorrei capire cosa ci può essere di commerciale in un pezzo synth pop oscuro di dieci minuti, con un lungo intermezzo parlato e sonorità a metà tra l’art pop anni ottanta e l’EBM dei primi anni duemila. È solo questione di gusti, e di qualità.

E Personal Shopper è un pezzo di innegabile qualità. La commistione di generi è ben riuscita, Nick Beggs al basso è inconfondibile, l’utilizzo dei synth è creativo e il concept intrigante.

Nell’ultima intervista dal vivo su YouTube mi ha lasciato un po’ perplesso la sua descrizione della canzone come “lettera d’amore al consumismo”, in quanto la mia interpretazione del testo è estremamente più ambigua. Non la vedo come la feroce critica interpretata da certuni, ma come una ricerca della consapevolezza dell’assurdità del consumismo sfrenato. Il sottolineare quanto ci piaccia, quando ci faccia stare bene comprare le cose più inutili al mondo, ma quanto sia allo stesso tempo un futile esercizio di compensazione. Con la realizzazione di esserne tutti vittime, lui per primo.

[Aggiornamento 05/01/2021: il 27 Novembre è uscito il video ufficiale di Personal Shopper che conferma al 100% la mia interpretazione, anche nella parole della regista. Il messaggio è assolutamente condivisibile e la rappresentazione concettualmente intrigante; purtroppo soffre di un problema comune a molto videoclip recenti: bassimo budget.]

Eminent Sleaze

22 Settembre 2020. Passano sei mesi assurdi e si riparte con il lancio del video di Eminent Sleaze, seguito dal singolo fisico per il Record Store Day del 24 Ottobre. E questo pezzo invece proprio non lo capisco.

Per quanto mi riguarda si tratta di una creazione piuttosto confusa. Posso intravedere l’idea, ma il risultato sembra stentato, quasi incompleto. Altra canzone che vede la chitarra come comprimario; l’asse portante è composta da basso, tastiere e battimani che si sintonizzano su frequenze squisitamente anni ottanta. Fatico onestamente a citare degli artisti specifici nei quali ritrovare le caratteristiche di questa canzone (e questo è sicuramente un punto a favore), ma se chiudo gli occhi vedo gli anni ottanta, non il presente.

Il video è in linea con il tema distopico consumistico del disco, ma per quanto divertente mostra in modo un po’ troppo evidente il risicato budget speso per la realizzazione. Tuttavia Steven che balla vale il prezzo del biglietto.

Eyewitness

Il primo dei due B-Sides di Eminent Sleaze è un pezzo interessante, il fatto che sia stato lasciato fuori dal disco fa ben sperare, e per quanto mi riguarda avrebbe potuto anche essere il Lato A.

Qua l’elemento dance anni ottanta è evidente, ma si incrocia con note wave e con una puntina di italo house. Ancora niente chitarra, ma il pezzo tiene bene e fa muovere il culo. Niente di illuminante però.

In Floral Green

Il secondo e ultimo pezzo del Lato B di Eminent Sleaze è una cover dei Lonely Robot, progetto del musicista inglese John Mitchell. Si tratta di una ballata presente sull’album del 2017 The Big Dream e wow, è meravigliosa.

I meriti sono principalmente di Mitchell in quanto Wilson ha addirittura dichiarato di aver usato buona parte della base dell’originale. La differenza la fanno la voce e il bellissimo assolo finale. Steven riesce a far completamente suo il pezzo e lo canta con tutta l’emozione che ha in corpo. “John, devo assolutamente cantare questa canzone!” ha detto a John Mitchell subito dopo averla sentita. Il missaggio della sua voce risulta molto audiofilo, dando l’impressione di essere in una stanza con lui, e l’assolo distorto quasi shoegaze mette il punto su un pezzo che i fan di vecchia data ameranno di certo.

King Ghost

29 Ottobre 2020 esce il video di King Ghost. Ci siamo.

Sempre niente chitarra. Ma non importa. Universo elettronico, pianeta Massive Attack, ma con la sensibilità di Steven Wilson. Ancora una volta la prima cosa che mi ha colpito è stata la voce. Sia le modalità di registrazione, che il trattamento in fase di missaggio si sono focalizzati sulla resa realistica; sembra davvero di avere Steven Wilson che ti sussurra all’orecchio. Con la differenza che King Ghost non è una ballata di chitarra, ma un pezzo atmosferico elettronico quasi trip hop.

Il testo è altrettanto atmosferico e relativamente ermetico così come il meraviglioso video animato diretto da Jess Cope. La creatrice di altri capolavori basati su Routine, Drive Home e The Raven That Refused to Sing cambia completamente stile riuscendo a realizzare qualcosa di unico quanto la canzone.

[Aggiornamento 05/01/2021]

12 Things I Forgot

Il quarto e ultimo singolo tratto da The Future Bites esce il 24 Novembre e s’intitola 12 Things I Forgot. Ancora un pezzo diverso: si tratta di una semplice ballata di chitarra. Detto così potrebbe sembrare deludente e invece no: valori di produzione altissimi, arrangiamento abbastanza minimalista, ma curatissimo, testo introspettivo e tanta emozione.

Evidentemente chi si aspetta del progressive continuerà a rimanere deluso, ma chi ha apprezzato i primi due dischi dei Blackfield (non quell’obbrobrio uscito il mese scorso), non può non rimanere con un amaro sorriso stampato in volto dopo aver ascoltato il ritornello di 12 Things I Forgot

Move Like a Fever

Il primo dei due B-Sides di 12 Things I Forgot è un nuovo viaggio nel mondo dell’elettronica. Questa volta unisce elementi trip hop (UNKLE?) al mondo synth-pop dark creando una base synth estremamente coinvolgente, andando poi a sperimentare con loop e drum machine. Il ritornello è piuttosto sommesso, se fosse stato più orecchiabile avremmo un nuovo lato A. Comunque abbondantemente superiore a Eminent Sleaze e forse anche a Personal Shopper.

King Ghost (Tangerine Dream Mix)

Sempre presente come B-side di 12 Things I Forgot diciamo che è King Ghost solo in nome. Thorsten Quaeschning e Paul Frick dei redivivi Tangerine Dream hanno estrapolato elementi ritmici e melodici della composizione originale di Wilson e di fatto creato qualcosa di nuovo.

In un attimo ci si ritrova catapultati all’interno degli scenari psichedelici che furono di Edgar Froese: nulla è come sembra, tutto è anche altro, qualcosa è spesso di troppo, ma anche troppo poco. Ci vorranno svariati ascolti per capirla tutta. Sicuramente potrebbe avere il pregio di avvicinare più persone ai capolavori dei Tangerine Dream, e sarebbe già una grande cosa.

The Future Bites Sessions

Il 31 Ottobre Wilson ha iniziato a regalare ai suoi fan qualcosa di veramente unico. A cadenze irregolari pubblica sul suo canale YouTube un video di una canzone tratta dalla sua sterminata discografia (e non solo), completamente ri-arrangiata e suonata interamente da lui. Il nome di questo progetto è The Future Bites Sessions.

In due mesi esatti ha prodotto otto video uno più incantevole dell’altro. Quello più sconvolgente è stato forse il pregevolissimo residuo secco di Voyage 34 (tratta dall’omonimo singolo uscito come Porcupine Tree). Ma anche la struggente Half-Light (un b-sides di Deadwing) e un interessantissimo nuovo arrangiamento di 12 Things I Forgot con Gary Kemp degli Spandau Ballet come ospite alle armonie vocali. 

Ma sono tutte strepitose. L’ultima ha scatenato un incredibile polverone tra i suoi fan più intransigenti: una cover di The Last Great American Dynasty di Taylor Swift. Onestamente fatico a capire questa recente riabilitazione di Taylor Swift come grande songwriter, ma se a Wilson piace chi sono io per avere problemi a riguardo? La sua versione è piuttosto fedele all’originale, ma con un po’ di pepe in più.

[Fine aggiornamento]

La musica di oggi

Non avendo l’album in mano questa osservazione è estremamente temporanea e potrà mutare anche completamente dopo il 29 Gennaio, ma al momento non sono sicuro che Wilson sia riuscito nel suo intento.

La cosa certa è che non si tratta di un tributo a un periodo specifico in quanto i pezzi usciti fino a oggi sono piuttosto diversi tra loro, ma allo stesso tempo fatico a trovare un’originalità intrinseca nella natura delle canzoni. Ci sono degli elementi nuovi come il suono della voce su King Ghost o il particolare mix di generi di Personal Shopper, ma nulla che nel complesso riesca a farmi pensare a qualcosa di estremamente contemporaneo. Anzi, Eminent Sleaze trasuda anni ottanta da tutti i pori.

Ovviamente questo non vuol dire niente anche se dovesse essere vero per l’album nel suo complesso. The Raven That Refused to Sing è un disco incredibile anche se è in parte un omaggio al progressive settantiano, come To The Bone rimane un grandissimo lavoro anche grazie al suo essere un parziale tributo al pop degli anni ottanta. Quindi? Quindi fidiamoci dell’artista. Preferisco venti dischi onesti tutti diversi (anche con alcuni capitoli che magari non sono di mio gusto), piuttosto che venti banalissime variazioni su quel disco clamoroso che è In Absentia.

Luca Di Maio

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