Avevo iniziato a scrivere un pezzo su The Affair immediatamente dopo la conclusione dell’ultima stagione, lo scorso Novembre; avevo iniziato e poi ho buttato via tutto. Non ero pronto. Si tratta di una serie che mi ha dato tantissimo da un punto di vista emotivo, che ho apprezzato infinitamente sotto il piano narrativo, ma che è riuscita anche a deludermi pesantemente con il passare delle stagioni. A caldo non le avrei reso giustizia, quindi ho aspettato.
Circa un paio di mesi dopo la messa in onda dell’ultimo episodio ho deciso di cominciare a “scrivere” questo pezzo semplicemente creando una playlist Spotify con un’ideale colonna sonora ispirata alla serie. Man mano che sceglievo le canzoni ho iniziato d’istinto a metterle in una sequenza che ripercorre cronologicamente l’intera serie. Le emozioni, gli umori, le voci, gli eventi, le lacrime e le gioie. Così facendo è come se avessi rivissuto l’intera epopea di Noah, Allison, Helen, Cole e tutti gli altri. A quel punto ero pronto.
[Nessuno spoiler fino a nuovo ordine, leggete pure tranquilli] The Affair è stata spesso descritta come il Rashomon sul tradimento in quanto utilizza lo stesso approccio del leggendario film di Kurosawa, mostrando le stesse vicende sotto molteplici punti di vista. Nella prima stagione i protagonisti sono Noah (Dominic West) e Allison (Ruth Wilson), sposati rispettivamente con Helen (Maura Tierney) e Cole (Joshua Jackson). Noah sulla quarantina, quattro figli, idealista, non ha mai tradito la moglie con la quale è sposato dai tempi dell’università; Allison 32 anni, l’emozione fatta persona, ha da poco perso il figlio di quattro anni, annegato, è devastata dal senso di colpa e dal rancore verso il marito.
Si conoscono casualmente e comincia la passione. Per tutta la prima stagione gli episodi si dividono in due; metà dal punto di vista di Noah, metà da quello di Allison. Spesso le medesime scene risultano molto diverse: cambiano i vestiti, cambiano gli atteggiamenti, cambiano gli eventi stessi. La fallibilità della memoria, la soggettività dei vari punti di vista, le emozioni che si provano in ogni momento; non è necessario menzionarli, non c’è esposizione, traspare tutto da queste differenze.
L’aspetto che colpisce maggiormente è la grandissima definizione dei vari personaggi, con un particolare occhio di riguardo per l’aspetto psicologico. Non a caso i creatori della serie sono Hagai Levi (la mente dietro la versione originale israeliana di In Treatment) e Sarah Treem (importante autrice della sua versione americana, poi principale forza creativa di The Affair). Se durante In Treatment ci trovavamo di fronte a uno schermo, spettatori di una serie di sedute di psicoterapia, in The Affair siamo noi i Sigfrid Von Shrink della situazione (offro una cena a chiunque colga la citazione senza usare Google, tanto poi vi testo). I vari personaggi sono metaforicamente seduti sul nostro divano, rispondono alle nostre domande, ci raccontano la loro storia, e lo fanno con un’umanità assolutamente sconcertante.
A partire dalla seconda stagione i punti di vista raddoppiano con l’inserimento di Helen e Cole. Soprattutto il personaggio interpretato da Maura Tierney risplende di luce propria e man mano che la serie prosegue è forse quello più emozionalmente intenso. A questo punto la passione, il senso di colpa e il dubbio, lasciano spazio a un dramma famigliare forse più convenzionale, ma incredibilmente impreziosito dai quattro punti di vista. Con la terza stagione cominciano le prime crepe; l’attenzione si sposta pesantemente sul dramma personale di Noah perdendo quel focus sulla coppia e sulla famiglia che tanto aveva incantato. Gli episodi rimangono ben scritti e ben recitati, ma la grande originalità che la contraddistingueva inizia man mano a scemare.
La stagione quattro è per certi versi migliorativa in quanto si ritorna alle relazioni, ma sebbene inserisca qualche altro punto di vista, l’effetto Rashomon è ormai quasi inesistente. Si continuano a vedere eventi con gli occhi dei vari personaggi, ma quasi mai lo stesso evento; l’attenzione si sposta troppo sulla trama finendo per tralasciare l’aspetto psicologico. L’errore è proprio questo: la trama di The Affair non è nulla di particolarmente originale, il suo enorme punto di forza è lo studio psicologico dei personaggi, manifestato principalmente grazie alla visione degli stessi eventi da molteplici punti di vista. Perso questo rimane solamente un piacevole dramma famigliare.
La stagione conclusiva è invece sconcertante fino al penultimo episodio, cercando di sfidare Game of Thrones per il premio come peggiore ultima stagione di sempre. Ho fatto una fatica incredibile a guardare gli episodi; memore dello splendore dei primi anni uscivo da ogni singola visione quasi incazzato per quello mi trovavo a sopportare. È stato inserito un punto di vista circa trent’anni nel futuro realizzato in modo imbarazzante. Senza spoiler è molto difficile descriverlo, dovete vederlo per poterlo “apprezzare”.
Dico che dovete vederlo perché alla fine ne vale la pena. L’episodio conclusivo chiude il cerchio e lo fa davvero bene. Considerando le vicissitudini di produzione che non voglio rivelare, è stato fatto il massimo con quello che c’era. Troviamo una chiusura emotiva per tutti i personaggi, anche la terribile storia nel futuro si compie acquisendo tutto il senso che deve avere. Le note di The Whole of The Moon riescono a emozionare come non ci si poteva aspettare e nonostante gli episodi precedenti riusciamo a salutare la serie con un grandissimo sorriso malinconico sulle labbra.
La mia colonna sonora ideale – tutta la serie raccontata attraverso 31 canzoni
(tantissimi spoiler)
Si comincia con l’ipnotica sigla iniziale, purtroppo non nella versione originale; segue Allison che piange la morte del figlio sulle note di Death Whispered a Lullaby degli Opeth (testo di Steven Wilson). Lo piange poco perché appare Noah Solloway e fa capolino la passione proibita: prima il gioco scanzonato di Tainted Love, la dipendenza fisica di Love Infernal dei Poisonblack e la peccaminosità di Gone with the Sin degli HIM.
I partner iniziano a captare qualcosa e Marvin Gaye prova a suggerirglielo. La rabbia di Helen e Cole si fa violenta al grido di “I KNOW YOU’RE FUCKING SOMEONE ELSE” con la voce di Pete Steele dei Type O Negative e con la disperazione incazzata di Alanis Morrisette in You Oughta Know.
Helen si chiede che razza di uomo Noah sia realmente con le parole di Florence Welch, Noah non si capacita di quello che ha fatto incanalando George Michael e Careless Whisper. Si rimbalza tra disperazione, rabbia, violenza e senso di colpa attraverso Cure, U2 (ma nella versione di Daniel Cavanagh di With or Without You), Sentenced e Adele con la devastante Rolling in the Deep.
Noah e Allison prendono poi le distanze con la consapevolezza di Steven Wilson e Ninet Tayeb in Pariah, ma non senza la rabbia di Janis Joplin e Bjork. Un po’ tutti si rendono conto di non essere più sposati come dice Tim Bowness e di non avere più nessuno come sorprendiamo sostenere gli Slipknot.
Noah racconta la sua esperienza in prigione per un omicidio che non ha commesso, anche se non proprio come Johnny Cash e l’uomo che uccise a Reno. Si ricorda sia di Allison che di Helen rendendosi conto di essere stato un Back Door Man come Jim Morrison. Allison a sua volta rivuole Cole, ma nonostante la sua maturità acquisita sa di non essere stabile, un po’ come Amy Winehouse. Cole è perso per Allison, lo è sempre stato nonostante si sia risposato, lo urla con tutta voce che ha in corpo, vuole andare dovunque lei sia, ma è troppo tardi.
Cole e Noah si trovano incredibilmente assieme a piangere la morte di Allison, disperati come Eddie Vedder ogni volta che deve cantare Black. A ruota Helen piange Vik unendosi al loro coro con Wonderful Life degli Alter Bridge. Ritorna Careless Whisper, questa volta nella versione incazzata dei Seether, a sottolineare la disperazione di tutti i personaggi.
Ultima stagione, tutto si chiude. Noah capisce di essere destinato ad amare Helen per tutta la vita, Helen lo sa da tempo, ma non vuole accettarlo. Noah si scusa e la ringrazia come fece Robert Plant con la moglie scrivendo il testo di Thank You. Helen ha una terrificante paura del cambiamento, del ritorno, di sbagliare di nuovo, ma si butta in mare lasciandosi travolgere dalle onde come canta Bruce Dickinson in Tears of the Dragon. Tutto è dove deve essere: Love of my Life e The Whole of the Moon. Sipario.
Una serie non perfetta, le prime due stagioni lo erano, l’ultimo episodio lo è stato, il resto un po’ meno; a volte irritante al punto da fare incazzare, ma ci accontentiamo. È stata un’esperienza intensa che spero di esservi riuscito a trasmettere anche solo minimamente con questa playlist.
Luca Di Maio