Lessi per la prima volta The Handmaid’s Tale di Margareth Atwood ormai un decina di anni fa, da sempre attratto da scrittori non di genere che si cimentano nella fantascienza. L’opera fu illuminante, angosciante, straziante, asfissiante e di una forza unica. Tre anni fa venne annunciata la realizzazione dell’omonima serie tv basata sul libro, l’ho approcciata con il classico scetticismo riservato agli adattamenti di lavori seminali, ma le prime due stagioni passarono l’esame con voti di tutto rispetto. Poi l’anno scorso la notizia: trentacinque anni dopo il suo capolavoro, Margareth Atwood sta scrivendo un seguito intitolato The Testaments, slegato dalla serie, che continua la storia del libro originale, e… no, facciamo un passo indietro.

The Handmaid’s Tale è un libro fondamentale per tantissimi motivi. È la storia di una donna all’interno di dello stato di Gilead, formatosi dalle ceneri della costa est degli Stati Uniti in seguito a un colpo di stato di natura para-religiosa. Gilead è una società distopica nella quale le donne sostanzialmente non hanno diritti: possono essere mogli, serve, suore (circa), prostitute o appunto handmaid (tradotto “ancelle” in italiano).

Le handmaid vengono assegnate alle coppie altolocate che non possono avere figli; sono delle non-persone, vivono nel tedio più assoluto, a parte una volta al mese quando prendono parte alla “cerimonia”. Si stendono sul letto tra le gambe della moglie, aprono le loro gambe, e il marito arriva a depositare il suo seme al loro interno. Hanno a disposizione tre cambi di famiglia, in caso di fallimento vengono spedite nelle cosiddette “colonie” a ripulirle detriti radioattivi.

Sospirone. Già. Per tutta la durata del libro abitiamo la mente della protagonista. Non conosceremo mai il suo vero nome, ma sappiamo tutto di lei. Le sue angosce, le sua paure, la sua rabbia, il suo senso di colpa, la sua vergogna e le sue speranze. La sua mente congiura per noi tutte le immagini che vediamo, non ci viene raccontato niente, tutto prende forma come se fosse la nostra mente stessa a percepirlo direttamente. Non c’è esposizione, noi siamo lei, lei è noi, lei potrebbe essere noi, anche noi uomini, da qualche parte.

Il finale è aperto. Potrebbe essere molto male o molto bene, ed è giusto così. Non avrebbe senso il lieto fine per questa storia, come non avrebbe senso una conclusione apertamente tragica. È tutto una scusa per raccontare quanto è già successo, sta succedendo e potrebbe succedere; per lanciare un messaggio e invitare il mondo a riflettere. Esattamente tutto quello che dovrebbe sempre fare la fantascienza, ma che spesso dimentica.

La serie tv nella sua prima stagione riesce a materializzare tutto quello che avevamo solo immaginato. La fotografia è stilosa, i colori slavati, la telecamera è sempre dove non ti aspetti. Elizabeth Moss riesce a cogliere l’essenza della protagonista grazie al suo linguaggio del corpo, ai suoi monologhi e soprattutto al suo sguardo. La qualità della prima stagione è elevatissima, quella della seconda comunque molto alta, mentre la terza uscita pochi mesi fa ha subito un crollo verticale. Con il materiale di Margareth Atwood ormai esaurito alla fine del primo capitolo, gli sviluppi non hanno retto, il tutto è diventato stagnante e senza una direzione precisa. Peccato. Ma è uscito The Testaments, sicuramente ci risolleveremo.

E invece no. Male, molto male. Anzi, sono davvero incazzato. Ho finito di leggerlo solo oggi e già sento il bisogno di scriverne, non me ne capacito. La Atwood è stata una delle mie scrittrici preferite. The Blind Assassin è un’altra incantevole storia al femminile, i primi due volumi della trilogia di MaddAddam sono quanto di meglio si possa produrre nei canoni della fantascienza, ma già la conclusione della trilogia e il suo libro successivo The Heart Goes Last furono due enormi delusioni. The Testaments è tutto quello che The Handmaid’s Tale non è: ruffiano, prevedibile, commerciale, pieno di buoni sentimenti fini a se stessi, senza un vero messaggio, scritto in modo banale e pieno di esposizione.

È ambientato circa quindici anni dopo gli eventi del primo libro e si snoda attraverso tre testimonianze. Una è quella della già nota Aunt Lydia e le altre sono di due ragazze che impareremo a conoscere. Evito spoiler di ogni genere perché non ce n’è bisogno. Il libro sarà già abbastanza una delusione senza che io vi rovini anche le piccole piacevoli sorprese che vi troverete. Lo stile è peggiorato sensibilmente rispetto a trent’anni fa: è tutto molto più semplice e lineare, il lessico è meno ricercato, sembra un libro da centro commerciale piuttosto che alta letteratura distopica come il precedente.

La parte peggiore è comunque il suo essere ruffiano. Deve per forza chiudere un cerchio che non necessitava di alcuna chiusura. Deve per forza rendere i protagonisti degli eroi, anche quelli che erano stati dipinti come tutt’altro che virtuosi. Deve inserire una morte eroica del personaggio tenero; è di fatto una collezione dei peggiori cliché. Ha perso tutto il crudo realismo che caratterizzava l’opera originale senza riuscire ad aggiungere assolutamente nulla a livello di messaggio.

Una donna riuscirebbe a essere indubbiamente più efficace di me nel trasmettere l’inestimabile valore di Handmaid’s Tale. Dopo l’uscita della serie si sono moltiplicate le proteste verso le violazioni dei diritti delle donne, con le partecipanti proprio vestite da handmaid in modo da sottolineare dove potrebbero portare tali violazioni. Margareth Atwood era riuscita a creare una società apparentemente improbabile, ma che se guardata più attentamente rivela una miriade di particolari spaventosamente vicini a quanto già esistente nel nostro mondo.

The Testaments ha invece elaborato maggiormente questa società improbabile, aggiunto dettagli, aggiunto colore, ma in sostanza non ha dato niente. Ha cercato di portare le donne coinvolte a guidare una sorta di rivolta senza basi narrative credibili, con il tentativo di portare un messaggio di azione, ma risultando solamente ruffiano e paraculo, oltre che artisticamente poco ispirato. Per certi versi mi ha dato impressioni simili a quelle di Blade Runner 2049, con la differenza che in The Testaments manca anche la stilosità palpabile nella pellicola di Villeneuve. Per il resto a livello di paraculaggine, assenza di vero messaggio e sostanziale inutilità, i due seguiti si equivalgono abbastanza. Peccato, peccato davvero.

Luca Di Maio

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