Non facciamo molte recensioni secche su MangiaCassette in quanto preferiamo approfondire artisti, generi, scene e eventi. Ogni tanto ci concediamo un’eccezione e solitamente i motivi possono essere o l’altissima qualità di un nuovo disco o l’incredibile delusione da esso generata. Sono felicissimo di dirvi che Flowers At The Scene di Tim Bowness rientra a pieno titolo nella prima categoria.

Tim è noto principalmente grazie al suo trentennale progetto elettro-pop No-Man assieme a Steven Wilson, ma negli ultimi quindici anni ha avuto anche un’attivissima carriera solista sempre a cavallo di elettronica, pop rock, progressive e psichedelia.  Flowers At The Scene è però un vero e proprio salto quantico rispetto ai lavori precedenti.

I Go Deeper apre il disco e in un certo modo dice già tutto. In primis missaggio e produzione sono semplicemente spettacolari: il lavoro di Tim e Steven Wilson (accreditati come No-Man) è stupefacente. Suono nitidissimo, si possono quasi sentire le dita dei musicisti, bilanciamento perfetto e un senso della canzone da grande singolo di successo (e in questo caso è un complimento). Il pezzo è breve, ma difficilmente avrebbe funzionato più lungo: è un residuo secco che concentra tutto il buono che dovrebbe esserci. Il genere? Più invecchio, più dividere in generi mi annoia. Si potrebbe definire pop, pop/rock, art rock, progressive pop? Io direi “musica”, ma chiaramente non è sufficiente, mi limiterei a confermare che appartiene all’universo pop/rock.

È proprio qui il salto quantico per Tim Bowness. Detto con le sue parole “il precedente Lost in the Ghost Light era stato una profonda esplorazione del prog, una sorta di Smiler at 50 esteso” (capolavoro dal più vecchio Abandoned Dancehall Dreams), mentre Flowers At The Scene cambia completamente le carte in tavola. Come approccio ricorda un po’ i No-Man, ma come sonorità è qualcosa di completamente nuovo. Troviamo rimandi a U2, Talk Talk, Depeche Mode, ma anche a Supertramp, Genesis, Simple Minds e tanto altro. Uniamo queste influenze alla incantevole voce di Tim, alla produzione spettacolare e alla maestria di tutti gli ospiti coinvolti e andiamo a generare uno dei dischi pop/rock migliori degli ultimi trent’anni.

Proprio gli ospiti e il loro utilizzo centellinato e specifico arricchiscono a dismisura il disco. La chitarra di Jim Matheos dei Fates Warning è puntuale come un orologio svizzero nei suoi assoli emozionalissimi, ma mai masturbatori. La voce del fondatore dei Van Der Graaf Generator Peter Hammil va a impreziosire il capolavoro It’s the World assieme alla tastiera di Steven Wilson e alla chitarra di Matheos; questo connubio sfocia presto nel metal più progressivo e in quello che è forse il pezzo migliore del disco insieme a quello di apertura.

Bassisti e batteristi si alternano nelle varie canzoni a seconda del preciso effetto ricercato da Bowness. Nella titletrack troviamo rispettivamente Tom Atherton e David K Jones che, assieme a Matheos, creano un microcosmo soft jazz. Anche Colin Edwin aggiunge il suo basso sui pezzi più metal creando nostalgie di Porcupine Tree.

Non è un album allegro. Le atmosfere sono piuttosto cupe e si riflettono in testi molto introspettivi e personali. Questo ne può limitare la vendibilità alle grandi masse, ma le sue grandissime qualità esplicite dovrebbero in teoria essere più rilevanti.

Purtroppo quello che dispiace è che ancora una volta Tim Bowness non potrà godere della promozione che questo disco meriterebbe. Potrebbe essere un successo planetario in quanto nel suo essere snob è anche molto semplice e diretto. Ha carattere e particolarità senza farti sentire ignorante e senza chiederti di essere un esperto di musica. Gruppi progressive troppo pretenziosi, prendere nota.

Invece che lasciarvi con la solita gran selezione, vi lascio più semplicemente con Flowers At The Scene, la cassetta non contiene altro. Ascoltatelo e apprezzatelo, poi esplorate il resto di Tim, dei No-Man e dei suoi altri progetti, non potranno deludervi.

Luca Di Maio

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