Tim Bowness è sicuramente uno degli artisti più brillanti che non conoscete.

Se vi è giunto il nome all’orecchio sarà sicuramente per il suo ultratrentennale sodalizio con Steven Wilson che prende il nome di No-Man, ma non è assolutamente tutto lì. Tim è un cantante, musicista e artista a tutto tondo che ha guidato svariati progetti di altissima qualità e prestato la voce a tanti lavori di pregevolissimo livello. Oggi voglio provare a raccontarvelo con una panoramica sulla sua carriera accompagnata da una playlist retrospettiva che vi consentirà di fare questo viaggio assieme a me. Cominciamo dal principio.

Anni 80 – Plenty e nascita dei No-Man

La storia di Tim Bowness segue quella della musica occidentale, anche se spesso la anticipa, talvolta la porta indietro e altre volte ancora si ferma in una bolla eterea alla quale solo lui può accedere.

I primi passi li muove nei Plenty alla metà degli anni ottanta assieme a Brian Hulse e David K. Jones. La loro proposta era un amalgama tra wave, post-punk, art pop e rock che per certi versi poteva ricordare gli Smiths innamorati dei Talk Talk. Il gruppo registrerà solo qualche demo per poi sciogliersi. Li trovate all’inizio della playlist in quanto nel 2018 si sono riuniti per registrare una gran selezione di pezzi scritti in quegli anni. Le canzoni sono di qualità, certo è difficile discernere quanto sia dovuto all’esperienza attuale di Bowness, e quanto esistesse già trent’anni fa; il suono però è fresco e non sfigurano di fianco al resto della sua produzione.

I Plenty si sciolgono quando Tim incontra Steven Wilson e il progetto No-Man prende vita. Mentre Wilson sfogava la sua voglia di Pink Floyd con i Porcupine Tree (all’epoca ancora in solitaria), con i No-Man l’idea era quella di reiventare il pop. I primi pezzi che vedono la luce sono le cover di Pink Moon di Nick Drake e di Colour di Donovan, e in un certo senso dicono già tantissimo sulla loro direzione. La voce al velluto di Tim è in primissimo piano e avvolge completamente l’ascoltatore: se lo conosci, lo riconoscerai dopo due sillabe. Musicalmente siamo nel pianeta synth atmosferico con una resa molto simile a quello che Wilson stava sperimentando con la chitarra per il suo altro progetto.

Anni 90 – I No-Man crescono e Barbieri / Bowness

Gli anni novanta per Tim Bowness sono quasi esclusivamente dedicati a No-Man con un’unica escursione nel bellissimo Flame assieme a Richard Barbieri. Il suono dei No-Man in questo periodo anticipa molto di quanto è diventato popolare nel mondo house a partire dagli anni duemila. Si alternano pezzi dal beat sostenuto ad altri squisitamente atmosferici; l’inserimento puntuale della chitarra di Wilson e del violino di Ben Coleman sono la ciliegina sulla torta. È musica snob, ma anche danzereccia, è musica di classe, ma con una vena funky che spesso starebbe bene anche in spiaggia.

Il già citato progetto con colui che era stato il tastierista dei Japan e poi dei Porcupine Tree Richard Barbieri è tra i punti più alti della sua carriera. Un esaltante mix di jazz, funky, soft rock e elettronica vede la presenza di membri di entrambi i gruppi di Barbieri e si esalta principalmente grazie al basso di Mick Karn.

La voce di Tim continua a essere espressiva e avvolgente, le sue linee vocali spesso sorprendenti e le produzioni sempre curatissime. Difficile scegliere tra i dischi anni novanta dei No-Man. Sono tutti davvero validi e piuttosto diversi l’uno dall’altro: se vi piace il beat starei sui primi tre, per maggiore atmosfera su Wild Opera, ma non è sempre vero.

Anni 2000 – Ancora No-Man, Henry Fool e varie collaborazioni

Il nuovo millennio vede Bowness aprirsi a numerosi nuovi progetti e collaborazioni. Henry Fool è una costruzione quasi space rock interessante e originale; il primo album eponimo del 2001 è ancora abbastanza No-Man, ma più carichi e elettrici, mentre il secondo uscito dodici anni dopo è un viaggio solo strumentale quasi indefinibile.

Tim poi interpreta magistralmente Island dei King Crimson in duetto con la nostra Alice e con Paolo Fresu alla tromba (all’interno di un tributo al mondo della musica della cantante forlivese), apre la collaborazione con Giancarlo Erra come ospite su un pezzo dei suoi Nosound e presta la voce al progetto elettronico tedesco Centrozoon. Comincia anche il sodalizio con Stefano Panunzi regalandoci tre bellissime canzoni; una sull’album solista del tastierista e due sul debutto del suo progetto FJIERI (e un’altra nella decade successiva). Mi raccomando, recuperate tutti i dischi di Panunzi/FJIERI perché sono delle gemme nascoste di un rock progressivo molto jazzato e elettronico.

I No-Man arrivano al loro apogeo con un trittico di album spettacolari, soprattutto Schoolyard Ghosts del 2008. Sia Tim che Wilson smussano gli spigoli del loro sound degli anni novanta e lo fanno grazie a creazioni molto atmosferiche, ma spesso anche claustrofobiche. Con le occasionali esplosioni come in Pigeon Drummer.

Nel frattempo il cantante incide il suo primo disco solista My Hotel Year: un lavoro intimo e atmosferico, ma forse ancora acerbo.

Anni 2010 – Carriera solista, Memories of Machines e Love you to Bits

La decade appena conclusa viene invece dedicata allo sviluppo della sua carriera solista. Tim produce ben quattro album, oltre che il ritorno dei No-Man dopo undici anni di silenzio, l’inizio della collaborazione con Peter Chilvers e il capolavoro con Giancarlo Erra.

Il progetto Memories of Machines con Giancarlo Erra prende forma nel disco Warm Winter (che purtroppo non è su Spotify, ma verrà ristampato e remixato come Tim Bowness / Giancarlo Erra per l’uscita nel 2021) e lascia a bocca aperta. Soundscape glaciali vengono sciolti dalla caldissima voce di Bowness e ricongelati dalla chitarra di Erra. Siamo nell’universo progressive rock atmosferico e vede la partecipazione tra gli altri di Robert Fripp.

No-Man ritorna con Love you to Bits nel 2019 e spiazza tutti con del synth pop che torna indietro, ma guarda anche avanti, ne ho già parlato ampiamente.

La carriera solista continua invece con tre dischi progressive rock di pregevolissima fattura: il primo Abandoned Dancehall Dreams è ancora leggermente acerbo, ma ha il pregio di contenere quel capolavoro che è Smiler at 50. Mentre i due seguenti continuano la crescita e l’evoluzione risultando complessi, tecnici, ma sempre estremamente emotivi e di gran classe.

Nel 2019 oltre a Love you to bits dei No-Man, Tim cambia tutto anche nella sua carriera solista con Flower of the Scene: uno dei capolavori dell’anno. Anche di questo disco ne ho già parlato, quindi lo riassumo semplicemente definendolo la perfetta sintesi del suo suono e della sua musicalità. Melodia, tristezza, classe, ma con quella punta elettrica che ti tiene sempre in piedi.

Anni 2020 – Oggi

La nuova decade è appena cominciata, ma in meno di un anno il buon Tim ha già inanellato tre creazioni. Una strepitosa, una ottima e una un po’ deludente.

Quella strepitosa è il podcast The Album Years assieme a Steven Wilson. A cadenza abbastanza irregolare (da Maggio a fine Ottobre ci sono stati 11 episodi) i due amici si trovano e analizzano un anno del passato sotto il profilo musicale. La loro cultura sembra infinita; è evidente che siamo al cospetto di due persone che respirano musica da almeno quarant’anni e che hanno vissuto dalla fine degli anni ’70 immersi in vinili, cassette e cd. Le loro analisi vanno dalla musica classica minimalista di Philip Glass fino al metal degli Opeth passando per l’elettronica dei Meat Beat Manifesto e tutto quello che sta in mezzo. Chiunque ami la musica e capisca bene l’inglese DEVE ascoltarli; sono una miniera d’oro. Dopo ogni episodio pubblicano anche su Spotify una playlist con un pezzo per ogni album menzionato.

Quella ottima è il secondo disco con Peter Chilvers Modern Ruins. Il primo, California, Norfolk uscito nel 2013, l’ho trovato eccessivamente ambient e minimalista; è evidente la ricerca del suono e la costruzione dell’atmosfera, ma a parte qualche episodio perde un po’ il senso della canzone e fallisce nel tenere viva la mia attenzione. Modern Ruins sarà invece nella mia top 10 del 2020. Siamo sempre nel mondo dell’elettronica minimalista, ma questa volta il disco è stato asciugato e sintetizzato in modo da far contare ogni singola nota. Si tratta di un prodotto estremamente depresso e buio, ma allo stesso tempo in grado di trasmettere una pace interiore come pochi altri album riescono a fare. The Boy From Yesterday è una canzone struggente quanto meravigliosa.

La delusione è invece purtroppo l’ultimo album solista Late Night Laments. Dopo il trittico di Flowers at the Scene, Love you to Bits e Modern Ruis le aspettative erano altissime, ma Tim è riuscito a spiazzarmi. Si tratta di un lavoro arrangiato con grandissima cura, ma che risulta eccessivamente piatto e scorre via senza quasi mai lasciare il segno. È evidente la volontà di concentrarsi sulle atmosfere piuttosto che sull’impatto, ma l’impressione è che si sia perso nelle atmosfere dimenticandosi di dare un po’ di mordente alle composizioni. Il problema non è che sia un disco troppo “leggero” in quanto Modern Ruis lo è anche di più, ma la mancanza di varietà e incisività nella stesura dei pezzi lo rende purtroppo difficile da ascoltare e quasi impossibile da ricordare.

Quindi?

Nonostante l’ultimo passo falso siamo al cospetto di un artista a tutto tondo che ha basi solide in un art pop alla Talk Talk, ma che ha spaziato anche nell’elettronica, nel jazz, nel progressive rock e nel minimalismo con grandissima classe e qualità. E soprattutto la sua voce di velluto è una delle più uniche del panorama musicale mondiale. Ascoltatelo.

Luca Di Maio

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