Tool, Fear Inoculum, 13 anni, l’attesa, l’aspettativa, le aspettative, la paura, le meme, i concerti, la tensione, e tutto il resto. Più passavano gli anni da 10.000 Days e più Maynard e soci sapevano di essere di fronte a una prova impossibile, uno scenario senza alcuna possibilità di vittoria, una Kobayashi Maru del metal (solo i trekkies capiranno). Così più passavano gli anni e più ne facevano passare, Maynard ha addirittura resuscitato gli A Perfect Circle pur di non lavorare al disco del Tool. Alla fine però è arrivato, ora abbiamo tra le mani il risultato di tanti anni di attesa ed è esattamente come ognuno di noi si aspettava.

La chiave è proprio questa. Chi venera i Tool come delle divinità scese sulla terra per illuminarci con il loro genio, lo vedrà certamente come il tanto atteso capolavoro; chi li odiava in quanto sopravvalutati e noiosi, lo riterrà l’ennesima conferma della tanto sentita opinione; chi invece li apprezza senza venerazione alcuna, probabilmente proverà le stesse sensazioni per Fear Inoculum.

Scopro le carte e vi dico che faccio parte del terzo gruppo. Fear Inoculum continua quanto iniziato con Aenima ben 23 anni fa senza fare particolari rivoluzioni. Nel 1996 i Tool si scrollano di dosso quella patina post grunge acquisita grazie al super singolo Sober e iniziano a concepire un genere tutto loro che ancora non aveva un vero nome. Si parlava sempre di crossover; il purissimo mondo metal li vedeva come la solita abominazione americana derivante un po’ dal grunge e un po’ dal nascente nu-metal dei Korn, mentre il mondo progressive non vedeva proprio nulla, essendo ancora più morto che vivo e in una grandissima crisi d’identità.

È cinque anni dopo con Lateralus che sbaragliano tutti e si ergono a vere e proprie divinità raccogliendo sostenitori attraverso tutto lo spettro dei generi menzionati sopra. In realtà non è poi troppo diverso da Aenima, ma contiene una serie di pezzi che rimangono memorabili dopo quasi vent’anni. È uno degli ultimi veri classici della musica mondiale e bisogna dargliene atto. Schism rompe ogni confine e viene suonata nelle discoteche rock, pogata dai peggiori nu-metaller, letta e riletta dagli pseudo-intellettuali e osannata dai progster più modernisti.

Passano altri quattro anni e 10.000 Days continua sulla stessa scia. È un ottimo disco, ma non arriva nemmeno vicino a lasciare il segno quanto il suo predecessore. E poi, silenzio. Tredici anni. Speculazioni, illusioni, perdita di speranze, strazi e disperazioni. Il culto cresce, i Tool passano da essere delle semplici divinità, a diventare delle leggende di divinità. Non fanno musica, non basta il tormentone della successione di Fibonacci, perché citando un innominato adepto “i pezzi dei Tool hanno un’estrema musicalità, groove e melodie che esplorano lo spazio armonico molto di più di molte altre band. Lo studio dei suoni e delle ritmiche è talmente profondo che a distanza di anni riascoltando lo stesso album si possono sentire e interpretare i pezzi da altri punti di vista “, e così via, sono l’essenza stessa dell’arte in musica, secondo loro. L’aspettativa era così alta che potrebbe sembrare irraggiungibile, e invece no. Vengono talmente venerati che se Fear Inoculum fosse stato una collezione di peti e rutti, sarebbe stato comunque osannato come il capolavoro definitivo.

In realtà non è una collezione di peti e rutti, ma un ottimo disco. Non un capolavoro, non un classico, non rivoluzionario, non il miglior disco dell’anno, ma un lavoro di tutto rispetto. Un po’ poco per l’attesa che c’era, ma dimentichiamocela per un secondo e entriamoci dentro. La titletrack dopo vari ascolti rimane sorprendentemente uno dei pezzi che apprezzo di più, è sicuramente quella più progressive del disco e che di più si distanzia da quanto già ben conosciamo. Seguono poi altri cinque pezzi e quattro interludi strumentali. È un lavoro più organico di Lateralus, anche grazie a queste connessioni tra una canzone e l’altra, ma che non contiene nessun pezzo che si erge a capolavoro assoluto come potevano essere le varie The Grudge, Parabola, Lateralus o Schism. Tuttavia Pneuma, Descending e soprattutto 7empest bastonano da paura.

Lavorano in modo molto simile ai pezzi più elaborati dei due dischi precedenti, ma con delle differenze. Maynard è meno incazzato e più riflessivo, i riff tendono purtroppo a ripetersi e girarsi molto attorno, con basso e batteria a guidare e portarti veramente in giro, soprattutto il basso è particolarmente accattivante. La chitarra solista si sente poco, ma quando lo fa come in 7empest è forse il momento più alto del disco. Le canzoni sono lunghe, tutte sopra i dieci minuti, forse troppo lunghe per quello che restituiscono, ma nonostante girino un po’ troppo intorno agli stessi riff, i momenti salienti spesso ripagano l’attesa. Ho descritto forse poco, ma per chi conosce i Tool sono certo che sia abbastanza. La mia valutazione è solamente una questione di gusti? Direi di no.

Fear Inoculum è un ottimo disco. Verrà ascoltato tanto da tutti gli adepti del verbo dei Tool e anche da chi li ha sempre passivamente apprezzati, ma non sarà ricordato in alcun albo di dischi particolarmente memorabili. Lo dimostrano alcune graduatorie formulate da vari seguaci del culto che lo piazzano costantemente al terzo o quarto posto tra i dischi del gruppo, spesso solamente sopra a Undertow, o al massimo anche a Aenima. Questo dimostra che anche loro lo dimenticheranno presto, lo difenderanno fino alla morte come l’ennesimo capolavoro prodotto dai loro Dei, come è giusto che sia, ma indirettamente ammettono che è ben lontano dall’essere quello che speravano. 

Luca Di Maio

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