Ho avuto la fortuna di vedere Warrel Dane nel settembre del 2016 in uno dei suoi ultimi concerti in assoluto, circa un anno prima della sua prematura scomparsa. Poco dopo essere arrivati all’Alchemica di Bologna qualcuno mi fa “eccolo! È lui! Warrel!”, “Chi??? Quello??!!”. Una figura spettrale assolutamente irriconoscibile si aggirava davanti al bar. Bianco cadaverico, magrissimo, un po’ claudicante, spaesato, sembrava uscito da Trainspotting. Enorme fu il dispiacere nel vedere uno dei più grandi cantanti metal di sempre ridotto così, come l’ombra malata di sé stesso. Per questa ragione la notizia della sua morte nel dicembre del 2017, a soli 56 anni, non mi stupì più di tanto, ma nonostante tutto mi segnò brutalmente.

E contro ogni pronostico quel giorno a Bologna Dane si difese bene. Il tema della serata era un curioso quindicesimo anniversario del capolavoro Dead Heart in a Dead World (basta revisionismi! Chiamiamo capolavori i dischi che lo sono!) suonato nella sua interezza; seguito da un bis con qualche altro pezzo dei Nevermore, tre canzoni dal suo bellissimo Praise to the War Machine e due inediti da quello che sarebbe stato il disco postumo Shadow Work. La sua prestazione fu più che dignitosa; dopo qualche minuto di rodaggio iniziò anche delle divertenti chiacchiere con il pubblico e vocalmente si sciolse abbastanza. Moltissimi presenti la ricordano come la sua migliore esibizione, dato che anche a inizio 2000 era purtroppo famoso per soffrire abbastanza il palco. Io no, il mio ricordo migliore su di lui è un altro.

Un ricordo drammatico se penso al Gods Of Metal sauna del 2001 in quella fornace che fu il vecchio Palavobis. Ancora non riesco a capire come possano aver trovato sensato infilare due palchi enormi dentro un palazzetto di medie dimensioni, far suonare 20 band con 5 minuti di stacco tra l’una e l’altra, vendendo almeno un paio di migliaia di biglietti in più della capienza. In quell’inferno, verso le tre del pomeriggio arrivarono i Nevermore. Suoneranno poco più di mezz’ora, ma la ricordo ancora come l’esibizione migliore della giornata.

Dane si presenta col cappello da cowboy, evidentemente ancora sobrio, e restituisce una prestazione letteralmente inumana. Vocalmente utilizza tutto il suo range; dai bassissimi della cover di The Sound of Silence, fino alle vette più incredibili di Battle Angels dei Sanctuary. Sul palco è un animale impazzito e il pubblico è incredulo. I Nevermore sono un gruppo controverso per tutti i defenderoni accorsi per Judas Priest, Rhapsody, Gamma Ray e Savatage, ma ne ho visti davvero tanti rimanere piacevolmente scioccati da quella mezz’ora di fuoco.

Dopo quella giornata non ebbi più la fortuna di vedere i Nevermore dal vivo, ma i commenti che ho sentito negli anni li ricordo sempre estremamente critici rispetto alle prestazioni di Warrel. Per questo le mie aspettative nel 2016 erano moderate e mi sono trovato piacevolmente sorpreso. Aiutava che i pezzi di Dead Heart in A Dead World suonassero ancora freschi come se fossero stati scritti due giorni prima; e lo stesso valeva per quelli di Praise to the War Machine, disco purtroppo molto sottovalutato, ma che ci mostra il lato più emotivo e diretto di Dane. E che è stato la mia ispirazione per scrivere quest’articolo.

Infatti poche settimane fa ne è uscita una ristampa, anche in vinile, che contiene quattro bonus track acustiche. A parte essere una grandissima occasione per chiunque si fosse perso il disco nel 2008, quelle quattro tracce acustiche trovo che offrano una perfetta chiusura per la discografia del cantante di Seattle. Molto più del postumo Shadow Work, che non sapremo mai se avrebbe visto la luce in quella forma oppure no; sicuramente suona musicalmente generico e vocalmente purtroppo poco ispirato.

Le versioni acustiche di Obey, Brother e Let You Down, assieme al classicone di Sinatra A Very Good Year evidenziano ulteriormente le grandi capacità di comunicazione emotiva di Warrel Dane. Brother è uno dei pezzi più personali che sia mai uscito dalla sua penna e in questa versione non riesco a non avere la pelle d’oca a ogni suo respiro. Era riuscito nella stessa impresa a Bologna nonostante l’arrangiamento elettrico. La chiusura con A Very Good Year ti si pianta nel cuore e non esce più; non esiste modo migliore per salutare un artista che ha letteralmente dato la vita per la musica. Che non è riuscito a gestire la sua grande vocazione, che si è fatto consumare da tutto quello che amava vivere e per cui noi lo abbiamo amato alla follia.

Quando ho letto della sua scomparsa ricordo che su Facebook lo salutai con Insignificant, ricordandogli che non lo è stato affatto. Ma forse questo è ancora meglio.

But now the days are short, I’m in the autumn of my years
And now I think of my life as vintage wine
From fine old kegs
From the brim to the dregs
It poured sweet and clear
It was a very good year

Luca Di Maio

P.S. Qui sotto trovate una playlist tributo che ripercorre la sua carriera partendo da uno dei suoi primi demo con i Sepernt’s Knight (una primordiale versione di White Rabbit, poi incisa sul debutto dei Sanctuary), passa appunto per i Sanctuary, distilla i Nevermore e i suoi dischi solisti, chiudendo con A Very Good Year. Noterete che inizia come una sorta di clone di Halford nascondendo la sua natura di baritono fino a Into the Mirror Black per poi culminare nei dischi dei Nevermore. Una voce semplicemente straordinaria.

 

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