We Are Who We Are, siamo quelli che siamo. Frase tanto semplice quanto ricca di infinite sfumature. La si può interpretare negativamente andando a minimizzare “ciò che siamo”, oppure in modo ottusamente tautologico, oppure ancora con grande orgoglio egocentrico.

La serie ideata, scritta e diretta da Luca Guadagnino ci racconta i quattordicenni Fraser e Caitlin alla disperata ricerca della loro identità. Il “siamo quelli che siamo” è la risposta, tanto semplice e tanto banale, alla quale i due amici arriveranno solo dopo essersi addentrati per la prima volta in quella selva oscura chiamata adolescenza.

I giovani di oggi per noi sono degli alieni

Questa è la frase che ho ripetuto più volte a un amico coetaneo (trentasettenne) durante un periodo in cui frequentava un gruppo di ragazzi appena ventenni. “Non li possiamo capire, in questi pochi anni sono cambiate talmente tante cose che è come se venissero da un altro pianeta” era una delle mie litanie.

Guadagnino ha 49 anni, Paolo Giordano e Francesca Minieri (suoi co-autori delle sceneggiature) rispettivamente 38 e 41, ma sono magicamente riusciti a capire l’essenza di questa razza aliena. I ragazzi nati verso le fine della generazione Z sono forse “senza Dio” (un’altra mia lamentela da vecchio brontolone), ma non è mica colpa loro. Perché “sono senza Dio”? Oppure, sono veramente senza Dio?

Fraser adora la moda, in un qualche modo, Caitlin adora forse solo gli amici. “Ascolto la musica che mi piace e basta” dice Caitlin, come da smarcarsi da qualsiasi etichetta riguardo un genere o l’altro. “Credo che pensino che siamo strani? – Perchè? Ti dà realmente fastidio?” si dicono i due poco dopo essersi conosciuti. Navigano il mondo e la marea di stimoli che li circonda senza creare reali legami con cose e persone, rimarcandolo quasi orgogliosamente. Una particolarità non aiuta: vivono in una base militare americana in Italia; una sorta di microcosmo con delle dinamiche tutte particolari che contribuisce a questo perenne senso di alienazione che dimostrano di provare.

La madre di Fraser è comandante della base e ha una moglie. Il padre di Caitlin è lo stereotipo del soldato macho americano, con un figlio adottivo che si sta lentamente convertendo all’Islam. La madre di Caitlin inizia presto una relazione con la moglie del comandante. Nel piccolo universo in cui si trovano l’esplorazione dei concetti di genere e sessualità è difficile, ma per loro inevitabile.

“Ai miei tempi” era tutto diverso. Tuttavia le folli feste e i folli concerti degli adolescenti di oggi sono stati rappresentati cogliendo alla perfezione il loro essere estremamente effimeri, ma allo stesso tempo la cosa più importante del mondo. Sempre “ai miei tempi” la questione di genere non esisteva (avete capito quello che intendo) e quella di identità sessuale iniziava a esistere, ma ti marchiava con un’indelebile lettera scarlatta. Adesso è diverso, è ancora incredibilmente difficile, ma quantomeno le questioni esistono ed è possibile parlarne, ogni tanto.

Il cinema in TV

A livello tecnico penso ci sia poco da dire. We Are Who We Are abita quell’universo assieme a The Young Pope, Twin Peaks e poche altre serie che sono state in grado di portare la qualità del cinema sul piccolo schermo. La fotografia è estremamente curata, i punti di ripresa sono originali, la recitazione è di altissimo livello e, soprattutto, la sceneggiatura risplende.

Considerando quanto adoro i film con dialoghi continui, è stato difficile arrendermi all’idea che spesso il non detto possa essere più efficacie di un fiume di parole. Ma su We Are Who We Are è esattamente così. I dialoghi veri e propri sono pochissimi, le parole pesano come macigni e gli sguardi risultano indispensabili. L’esposizione è completamente inesistente e questo ci costringe a prestare attenzione a ogni singolo fotogramma per capire il presente, il passato e il futuro dei personaggi che stiamo imparando ad amare.

Esattamente. Alla conclusione della serie mi sono mancati tutti. Ero entrato nelle loro vite, nelle loro teste e nei loro cuori; è stato un peccato lasciarli nonostante l’esperienza estremamente appagante.

“È un film furbo”

Non mi sono volutamente esposto ad altre critiche riguardo la serie, ma già immagino l’obiezione “è una serie furba” che ho letto tantissime volte declinata all’universo filmico. Rappresenta quel giudizio dall’alto dispensato dal cinOfilo da giardino che la sa meglio di tutti. Quello che non si fa fregare. Quello che ha capito che la produzione in questione è stata fatta appositamente con lo scopo di cogliere un momento di favore, generalmente commerciale. L’ho letta applicata a Chiamami col tuo Nome di Guadagnino, a La Grande Bellezza di Sorrentino, a Her di Spike Jonze e tantissimi altri film del nuovo millennio che hanno commesso il gravissimo errore di piacere. I tre menzionati hanno addirittura vinto degli Oscar; peccato capitale. Poco importa che siano tutti lavori di pregevolissima fattura, che abbiano toccato dei nervi scoperti e che siano estremamente attuali. Sono dei film furbi. Anche per questi motivi vanno attaccati.

We Are Who We Are parla di argomenti estremamente attuali (identità di genere, orientamento sessuale, terrorismo, religione), lo fa attraverso la televisione e con un cast multi-etnico. E lo fa così bene da sembrare vero. Dovrebbe essere sufficiente. E lo è. Totalmente.

Luca Di Maio

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